sabato 26 febbraio 2011

i film di audrey hepburn/2

Come rubare un milione di dollari
e vivere felici (1966)

Charles Bonnet è un ricco falsario parigino che fa fortuna copiando alla perfezione i lavori dei grandi maestri e vendendoli poi come originali. Il pezzo più prezioso che possiede è una (finta) Venere del Cellini, che viene prestato a un museo per una mostra. Ma quando viene a sapere che alcuni esperti analizzeranno la statuetta, Bonnet capisce che verrà smascherato, insieme a tutte le vendite che ha realizzato nel corso degli anni.

Così sarà sua figlia Nicole, con l'aiuto di Simon Dermott, un affascinante scassinatore (ma sarà poi chi dice di essere? O bisognerà attendersi una rivelazione finale?) a cercare di rubare la Venere prima che si scopra che è un falso.




Per realizzare il "colpo del secolo" è sufficiente nascondersi in un sottoscala opportunamente predisposto, un boomerang (testato da un balcone del Ritz su Place Vendome), e prevedere quale sarà il comportamento umano in determinate situazioni... facile, no?

Il film nel complesso è divertente e simpatico, anche se si risolve abbastanza superficialmente e resta poco impegnativo. La storia è decisamente poco verosimile, però ci sono momenti esilaranti, come le lamentele dell'ingombrante "inquilino" che abita nei pressi del museo per i continui allarmi che suonano, oppure la battuta fatta da O'Toole quando fa vestire al personaggio della Hepburn i panni della donna delle pulizie e le dice che "Givenchy avrà un giorno di pausa" :) (intendendo così che lo stilista - amico fraterno di Audrey, e che disegnava per lei tutti gli abiti di scena e non solo - non dovrà disegnare per lei anche questa mise).

E per una volta il partner della Hepburn non è vecchio come il cucco, ma suo quasi coetaneo, il che rende un pochino più credibile del solito la relazione romantica fra i loro due personaggi. Anzi, a voler essere precisi, Peter O'Toole era più giovane della Hepburn di sei anni, e all'epoca era reduce dal fresco successo di "Lawrence d'Arabia", per il quale aveva ricevuto una nomination all'Oscar.




Sciarada (1963)
Regina Lampert è una giovane donna che ha intenzione di divorziare da suo marito, ma all'improvviso - al rientro a Parigi da una vacanza sulle Alpi Francesi - scopre che lui è stato ucciso e non ha lasciato nulla dietro di sé. Regina incontra Peter Joshua, un uomo dalle molteplici identità che intende aiutarla ma che, come si renderà conto in seguito, è a sua volta interessato alla fortuna del defunto marito.

La fortuna di Lampert (250mila dollari) proveniva da un tesoro che lui aveva rubato insieme a tre compagni durante la Seconda Guerra Mondiale, e ora i tre complici, pericolosi criminali, sono sulle tracce del bottino. Anche un ambiguo agente della CIA sta seguendo il caso e si è messo in contatto con Regina. Tutti credono che la donna sappia che fine ha fatto il malloppo, ma a uno a uno gli assassini che la inseguono vengono uccisi, sino al finale a sorpresa.



L'atmosfera del film è molto hitchcockiana: ci sono numerosi cambi di identità e capovolgimenti di trama, ma nonostante il thriller di sottofondo, permane un clima giallo-rosa e momenti comici. Anche se la storia è piuttosto improbabile, ci sono situazioni e battute memorabili: il gioco con l'arancia sotto il mento, la Hepburn che pedina Grant con una goffaggine irresistibile, Grant che fa una memorabile doccia tutto vestito, il filatelico che restituisce i francobolli alla Hepburn senza batter ciglio, l'inseguimento fra i due nella metrò parigina.

Ecco, Parigi è l'ambientazione di questo film, e mi rendo conto consapevolmente solo ora di quante delle pellicole di Audrey Hepburn siano ambientate (tutte o in parte) in questa meravigliosa città: ne ho contate 6, ma può darsi che me ne sia sfuggita qualcuna, tra quelle meno famose - sicuramente un numero sufficiente per associare per sempre il nome della Hepburn, nell'immaginario collettivo, alla capitale francese.

venerdì 25 febbraio 2011

animali in arte


Animali in arte
L'Arcadia della biodiversità

Museo Regionale di Scienze Naturali, Torino
(28 gennaio-27 febbraio 2011)


Il lavoro artistico di Maurizio Boscheri costituisce un approccio interessante all'analisi e alla percezione dell'universo floro-faunistico. La serie di 50 dipinti presentati in mostra, infatti, rappresenta un insolito approccio per conoscere la vita animale che, in luoghi lontani, scorre inviolata.

"Animali in arte, l'Arcadia della biodiversità" sembra raccogliere un mondo onirico in cui il confine tra reale e irreale, difficilmente percepibile, è talmente labile da disorientare l'osservatore. Gli animali sono dipinti con un realismo quasi fotografico e i dettagli sono estremamente curati e minuziosi. I paesaggi in cui questi si trovano, invece, sembrano illustrare un universo fantastico, slegato dalla realtà. I soggetti e i contesti si raccordano però con armonia, grazie ai cromatismi esasperati che sottolineano la carica emotiva e suggestiva delle tele.

I formati delle tele sono svariati: alcuni pannelli hanno un taglio orizzontale o verticale che li vedrebbe benissimo collocati sulle pareti del salotto di casa.
Sono rimasta a lungo davanti a un pannello raffigurante "Raganelle e Ibiscus", ad osservare il contrasto degli occhioni rossi sul corpicino da cartone animato delle raganelle, e la composizione simpatica e divertente delle figurine rappresentate. Altri pannelli, dal taglio verticale (ad esempio "Sifaka di Verreaux", mi hanno ricordato moltissimo le tele di Klimt, con la forte presenza di dorature belle cariche, polveri metallizzate, lamine e glitter, decorazioni astratte sullo sfondo dell'immagine, di una figura "stirata". Molto belli davvero, hanno catturato a lungo il mio sguardo.



E nella prima parte della sala tutte le tele sono dedicate alle tigri (e ai grandi felini in genere), le quali hanno gli occhi dolcissimi e l'espressione mansueta e delicata (sicuramente molto più di quanto non l'abbiano nella realtà).

La mostra, prima di Torino, è già stata ospitata con successo in numerose sedi e città, tra cui Trento, Roma e Dubai.
Sito dell'artista: www.maurizioboscheri.it



martedì 22 febbraio 2011

tramonto di una Punto

E' arrivato il momento di prendere seriamente in considerazione l'idea di cambiare macchina. Anzi, più che prenderla in considerazione, muoversi concretamente per farlo.
Non c'ho più voglia di spendere soldi in rattoppi e riparazioni (anche corpose) dal meccanico, e adesso c'è di nuovo un bel problemino (mi si è rotto qualcosa nel circuito di raffreddamento, per cui ho il pozzetto sotto al volante perennemente bagnato di paraflu da un paio di settimane, e devo girare con una bottiglia d'acqua a portata di mano per rabboccare il radiatore - adesso ho anche capito come mai i vetri non si spanano più e ho sempre macchie grasse sul parabrezza che non riesco a togliere: una figata per guidare con sicurezza! soprattutto quando piove e fa freddo...)

Ho preso atto che siamo davvero arrivati alla frutta. Mi dispiace un po' per la mia Punto, che mi ha accompagnata dal 1997, ma da ieri mi sto dedicando a prendere informazioni per decidere chi potrà essere la possibile sostituta. E anche questo non sarà un lavoro semplice.

mercoledì 16 febbraio 2011

the king's speech

Mi sono presa il pomeriggio di permesso - tanto ho un sacco di ore da consumare che altrimenti perdo - e me ne sono andata al cinema a vedere "Il discorso del re" (The king's speech). Sono andata al cinemino a due passi dall'ufficio, che proponeva la pellicola in lingua originale con i sottotitoli in italiano (pur sempre necessari, perché senza di loro non me la sarei cavata completamente...)


Bello, bello, quasi commovente in molti passaggi. Bravissimi Colin Firth, Geoffrey Rush e Helena Bonham-Carter. Perfetta fusione fra le difficoltà psicologiche di Bertie, che si manifestano nelle sua balbuzie, e gli aspetti pubblici dell'essere un re (o anche soltanto il "semplice" duca di York). Ho letto che anche la regina Elisabetta, alla quale il film è stato proiettato prima che uscisse nelle sale, l'ha apprezzato molto.

p.s. Ho scoperto solo nei titoli di coda che Jennifer Ehle interpretava la moglie di Logue: accidenti, non l'ho minimamente riconosciuta, anche se l'attrice mi pareva familiare... e dire che lei e Colin Firth sono stati la coppia Elizabeth/Darcy nella mitica trasposizione BBC di "Orgoglio e Pregiudizio" del 1995!

Niente sembrava aprire a Albert Frederick Arthur George Windsor, duca di York, la via della corona inglese: era il secondogenito di re Giorgio V (nato un anno dopo Edward Albert Christian George Andrew Patrick David Windsor) e soprattutto era funestato da una balbuzie che l’esplosione della radio nel primo dopoguerra del Novecento sembrava rendere ancor più drammatica e popolare. Eppure le cose presero una ben diversa piega perché, salito al trono con il nome di Edoardo VIII, Edward Albert eccetera eccetera preferì agli onori del trono le grazie della divorziata statunitense Wallis Simpson (americana e separata: due macchie indelebili per chi avrebbe dovuto essere anche il capo della Chiesa Anglicana), abdicando a favore del fratello minore. Che si trovò ad affrontare, oltre alle sue balbuzie, anche la Seconda guerra mondiale.

E proprio questi due «eventi» - la diffusione della radio e lo scoppio della guerra - sono quelli che racchiudono la parabola di Il discorso del re di Tom Hooper (nessuna parentela con il quasi omonimo ma più vecchio Tobe), a sottolineare ancora di più come privato e politico, pubblico e psicologico si intrecciano indissolubilmente. Specie nel secolo che ha «inventato» le comunicazioni di massa. Perché anche se la maggioranza delle scene si svolgono al riparo da occhi indiscreti, nelle stanze reali o in quelle, ben più povere, del «logopedista» Lionel Logue, è solo il senso di questo soffocante incombere (della Storia e della Dignità regale) che può spiegare e giustificare le azioni di tutti. Un «peso» che l’inglese e aristocratico Albert non sembra disposto a riconoscere e che invece l’australiano e plebeo Logue - e lo spettatore con lui - capiscono immediatamente.

Così la bella sceneggiatura di David Seidler diventa una specie di inchiesta psicologica dentro le tante contraddizioni di un uomo che non sembra prendere minimamente in considerazione l’ipotesi di essere stato schiacciato dall’educazione, dalla tradizione, dal padre, dal regno, dal dovere, dalla radio, da tutto. Mentre il suo «antagonista» deve cercare di farglielo capire, sbarazzandosi di tutti questi ostacoli che finiscono per bloccargli le parole in bocca. Come in una specie di braccio di ferro tra i primi e gli ultimi, la classe reale e i discendenti dei deportati nelle colonne penali australi. Tutto questo, naturalmente, senza che sia mai detto esplicitamente ma solo fatto intuire da tanti piccoli particolari, che sceneggiatore e regista disseminano lungo il film (l’attimo di imbarazzo di Elizabeth Bowes-Lyon, futura Elisabetta II, che si aspetta che qualcun altro faccia funzionare l’ascensore al suo posto; i convenevoli del tè a casa Logue) e che aggiungono più complessi livelli di lettura alla lotta di un uomo pubblico contro il suo handicap.

Per dare maggior forza a queste idee, Hooper sceglie una messa in scena frontale, spesse volte con macchina fissa, utilizzando obiettivi leggermente deformanti, così da accentuare il senso di accerchiamento che «il mondo» esercita sul futuro Giorgio VI. Un mondo complesso e contraddittorio, a volte urticante, come quello che il fratello raccoglie nel suo castello insieme all’amante Wallis Simpson e che come per incanto sparisce quando il principe balbuziente segue il percorso riabilitativo di Logue. Allora la scena ridiventa spoglia, come se il disadorno studio del logopedista fosse una specie di metafora del mondo interiore del futuro re Giorgio: senza niente a cui «aggrapparsi» o dietro cui «difendersi», dove persino i disegni e i colori alle pareti sono di difficile decifrazione. Mentre le richieste dell’insegnante sembra voler distruggere ogni «equilibrio» (il principe di York deve sdraiarsi, cantare a squarciagola, dire parolacce: cioè spogliarsi delle sue attitudini regali).

Una messa in scena minimale che si può reggere solo su una eccezionale prova d’attore. E Colin Firth (Giorgio VI), Geoffrey Rush (Lionel Logue) ed Helena Bonham Carter (Elisabetta II) sono davvero superlativi: Firth (già premiato col Golden Globe e seriamente favorito all’Oscar) e Bonham Carter restituiscono dallo schermo tutte le sfumature di una coppia regale che è costretta a confrontarsi con il mondo della concretezza quotidiana, fuori dai cancelli di Buckingham Palace; mentre Rush sa far trasparire, dietro il rispetto e l’educazione che si deve alla famiglia reale, quel tanto di rivalsa «psicologica» che l’Inghilterra del primo Novecento sta coltivando verso i suoi sovrani. Un gioco di sguardi, di allusioni, di inchini e sorrisi che raccontano meglio di tanti discorsi le due velocità a cui stava avanzando il Paese e che la minaccia della guerra saprà riunire in un fronte comune.

Offrendo così al sovrano l’occasione di ritrovare un comune sentire insieme a un eloquio finalmente non più tartagliante.

(Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 24 gennaio 2011)

venerdì 11 febbraio 2011

gialli parigini

Ciò che mi piace di più dei libri della Vargas non è tanto la vicenda gialla in sé, quanto le atmosfere e la scrittura dell'autrice.
Il commissario Adamsberg, protagonista di buona parte di questi libri, è una figura piuttosto svagata - è definito infatti "spalatore di nuvole" - non ha particolari doti metodologiche o razionali, ma grazie al suo intuito alla fine arriva sempre a rintracciare i colpevoli. Non si nutre per lui l'ammirazione invidiata che potremmo riservare a uno Sherlock Holmes, anzi a volte sembra quasi un povero sfigato, calmo, lento, con i suoi tempi, alle prese talvolta con una sua ex non-fidanzata, tale Camille.
Sua spalla nel corso delle indagini è l'ispettore Danglard - altra figura tragica, mollato dalla moglie, con quattro figli a carico più uno non suo, in continua relazione con la bottiglia - che bilancia in parte la leggerezza di Adamsberg con una parvenza di metodo logico di investigazione.

Se già i personaggi principali appaiono strani, non lo è certo di meno tutta la fauna umana disseminata nei vari libri: scienziate, storici, filosofi, marinai, poveracci e un altro vasto assortimento. Le atmosfere che pervadono i libri sono prevalentemente parigine, con riferimenti precisi alle strade e ai vari arrondissements; c'è qualche trasferta bretone o all'estero, ma anche in questi ultimi casi quella certa aria "francese" (che ho molta difficoltà a definire con precisione) rimane.

I romanzi polizieschi della Vargas sono editi in Italia dalla Einaudi, e sono stati pubblicati in un ordine astruso (per restare in tema e usare un francesismo, potrei dire "alla c***"), in un modo che sembra pensato apposta per fare ammattire un lettore.

L'ordine corretto di lettura (se si vuole seguire l'ordine in cui sono stati pubblicati dall'autrice) è il seguente:
- L'uomo dei cerchi azzurri (L'Homme aux cercles bleus, 1996) (Einaudi, 2007)
- Chi è morto alzi la mano (Debout les morts, 1995) (Einaudi, 2002)
- Un po' più in là sulla destra (Un peu plus loin sur la droite, 1996) (Einaudi, 2008)
- Io sono il Tenebroso (Sans feu ni lieu, 1997) (Einaudi, 2000)
- L'uomo a rovescio (L'Homme à l'envers, 1999) (Einaudi, 2006)
- Parti in fretta e non tornare (Pars vite et reviens tard, 2001) (Einaudi, 2004)
- Sotto i venti di Nettuno (Sous les vents de Neptune, 2004) (Einaudi, 2005)
- Nei boschi eterni (Dans les bois éternels, 2006) (Einaudi, 2007)
- Un luogo incerto (Un lieu incertain, 2008) (Einaudi, 2009)

p.s. Il nome della Vargas in Italia è associato anche a quello del terrorista Battisti, in quanto la scrittrice fa parte del gruppo di intellettuali francesi che lo ha sempre difeso. Non voglio entrare nel merito della questione ma, pur non condividendo queste sue idee, non mi va neanche di giudicarla soltanto per questo.
I suoi libri gialli sono scritti bene, sono intelligenti, fantasiosi e mi piacciono molto: per questo li leggo e li consiglio. Le idee politiche della signora Vargas non credo debbano avere nulla a che fare con i suoi romanzi "di fantasia".

giovedì 10 febbraio 2011

se non ora quando


Dedico volentieri un post anch'io per pubblicizzare questa iniziativa in programma domenica 13 febbraio, e alla quale quasi sicuramente parteciperò.
Il messaggio qua sotto è relativo alla manifestazione di Torino, ma in Rete trovate informazioni anche per il resto d'Italia.

Appuntamento per domenica 13 febbraio in piazza San Carlo alle ore 14,30.

Chiediamo a tutte e a tutti di arrivare all'appuntamento portando:
- un ombrello
- un gomitolo di lana colorata

Fra le varie proposte abbiamo convenuto queste.
- L'ombrello "per riparare i nostri corpi dal fango che ci piove addosso"
- Il gomitolo di lana per tessere una rete colorata fra tutte e tutti noi.

In piazza e durante tutto il corteo saranno organizzati momenti creativi per esempio: un minuto di silenzio seguito da un grande urlo collettivo di rabbia (il primo è previsto per le ore 15).
Inoltre verranno date le indicazione per l'apertura simultanea degli ombrelli.

Nel rispetto rigoroso dell'autonomia e della trasversalità, ricordiamo a tutte e tutti che NON CI DEVONO ESSERE SIMBOLI PARTITICI O SINDACALI O DI ASSOCIAZIONI.
Nel caso qualcuna/o venisse in piazza comunque con tali simboli sarà pregata/o di riporli.

Ribadiamo che non ci saranno né palchi né interventi. E che
- la manifestazione non è fatta per giudicare altre donne, contro altre donne, o per dividere le donne in buone e cattive. I cartelli e gli striscioni non dovranno generare equivoci su questo fatto.
- la manifestazione è fatta per esprimere la forza e la indignazione delle donne
- la manifestazione è promossa dalle donne, la partecipazione di uomini amici è richiesta e benvenuta.

Al di là di queste indicazioni collettive, ciascuna e ciascuno esprima tutta la propria creatività!

Percorso della manifestazione:
da piazza San Carlo, via Roma, piazza Castello, via Po, via Rossini, via Verdi (dove, davanti alla Rai, sarà letto l'appello "Se non ora, quando?"), via Montebello, via Po, piazza Vittorio.

Arrivederci a domenica!
Gruppo promotore di Torino "Se non ora, quando?"

giovedì 3 febbraio 2011

martedì 1 febbraio 2011

meme libri 2010

La gentile Francesca D. del blog Piccolo Sogno Antico mi ha invitata a partecipare al MEME, vale a dire questo mini-questionario a tema "libresco" riepilogativo dell'anno trascorso, che viene passato ad altri blogger, a mo' di catena. In pratica chi lo riceve dovrebbe rispondere alle domande, e poi girarlo ad altri 5 colleghi.

Dato che non c'è nessuno obbligo, e mi sembra una cosuccia simpatica per chi ama leggere, io inviterei al proseguimento del MEME:
Reader gone Wild(e)
The book lover
L'arte dello scrivere, forse
Dannati danni
Tacchi a spillo.. e gambe di zucchero filato


Quanti libri hai letto nel 2010?
66

Quanti erano fiction e quanti no?
La maggior parte (ben oltre la quarantina) erano decisamente romanzi, poi ci sono stati anche una manciata di fumetti e graphic novel, ma anche un paio di biografie, saggi e qualche guida.

Quanti scrittori e quante scrittrici?
37 scrittrici e 17 scrittori.

Il miglior libro letto?
Mi limito a segnare quelli a cui su Anobii ho dato 5 palline, ovvero "L'ombra del vento", "Le ho mai raccontato del vento del Nord", "Lover avenged" e "Tre uomini in barca". Oltre a questi me ne sono piaciuti anche tanti altri, ma l'attribuzione delle cinque palline su Anobii è una votazione che non elargisco a manica troppo larga, quindi vuol dire che questi mi hanno colpita particolarmente.

E il più brutto?
Di sicuro "Il principe vampiro" di Christine Feehan, un libro di cui avevo sentito parlare per quasi dieci anni come se fosse stato chissà quale capolavoro. Ed ecco che quando arriva anche in traduzione italiana, per quanto mi riguarda io lo boccio senza appello. La storia avrebbe del potenziale ma si perde e mi annoia. Tanto, ma tanto!

Il libro più vecchio che hai letto?
Più vecchio nel senso di prima pubblicazione? Oppure di quanto tempo l'ho lasciato a prendere polvere sui miei scaffali prima di cominciare a leggerlo? (perché data la mia lunghissima pila di arretrati, anche questa seconda opzione ha un senso). Se intendiamo il primo significato, credo che sia Northanger Abbey, edito nel 1818...

E il più recente?
Probabilmente I segreti del Vaticano di Augias.

Quale il libro col titolo più lungo?
Le strade del mistero di Torino. Un itinerario tra le vie, i vicoli e le piazze, alla scoperta dei luoghi testimoni di eventi mai chiariti, di Renzo Rossotti.

E quello col titolo più corto?
Seta, di Baricco.

Quanti libri hai riletto?
Ho riletto solo Northanger Abbey, dopo quasi una ventina d'anni da che l'avevo letto la prima volta.

E quali vorresti rileggere?
Per adesso nessuno. Preferirei invece smaltire un po' la pila infinita di arretrati che devo ancora leggere per la prima volta.

I libri più letti dello stesso autore quest'anno?
Quasi sicuramente Charlaine Harris, di cui mi sono divorata un bel po' di libri della serie di Sookie Stackhouse, ma la segue da vicino J.R. Ward.

Quanti libri scritti da autori italiani?
14.

E quanti dei libri letti sono stati presi in biblioteca?
Quest'anno ho ripreso un pochino la frequentazione delle biblioteche, approfittando di quelle più vicino all'ufficio. Però il numero complessivo dei libri letti che provengono da lì non è molto alto, solo 8.

Dei libri letti quanti erano ebook?
Solo 2. Però non avendo (ancora) un ebook reader li ho dovuti leggere al computer, e non nascondo che lo trovo abbastanza pesante, nonché scomodo (ma cosa non si fa per i nuovi volumi delle proprie serie preferite!).

(p.s. per fortuna che c'è Anobii ad aiutarmi a tenere traccia delle letture, altrimenti buona parte di queste domande avrebbero avuto risposte molto difficili da ricordarsi...)