mercoledì 28 ottobre 2015

devoted in death

L'altro giorno mi hanno chiesto com'era l'ultimo libro della serie "In death", e ho avuto un attimo di defaillance nel ricordarmi di cosa parlasse. Il punto è che l'ho finito di leggere solo due settimane fa, e ho dovuto sforzarmi per ricordare.
Un po' sarà colpa della vecchiaia che avanza, ma sicuramente "Devoted in death" non è un libro indimenticabile. E purtroppo gli ultimi della Robb sono su questa lunghezza d'onda.

La storia si apre all'inizio del nuovo anno (siamo arrivati nel 2061 o nel 2062? Mi sono persa...) con una coppia in stile Bonnie & Clyde, che nel suo percorso dall'Arkansas a New York lascia una lunga scia di morti, passate per lo più inosservate.

Le cose cambiano quando, per il caso della loro prima vittima a New York, comincia ad investigare il tenente Dallas. Eve capisce presto che la vittima potrebbe essere soltanto l'ultima di una lunga serie, e questa sua intuizione è sostenuta pienamente da un vice sceriffo dell'Arkansas che partecipa alle indagini insieme al solito team di Eve.

I due assassini sono perciò chiari sin dalle primissime pagine, e il tenente Dallas riesce ben presto anche ad individuare i loro nomi. La difficoltà risiederà quindi nel trovarli e nel catturarli prima che possano uccidere anche le due nuove vittime che nel frattempo hanno intrappolato.

Non c'è molto Roarke in questo titolo, secondo me, e quello che c'è è molto "addomesticato", ormai è del tutto dedito ad aiutare la moglie con le investigazioni: credo che il capo di Eve potrebbe ormai dare anche a lui un distintivo onorario, oltre al titolo di "Civilian Consultant".
Le dinamiche tra Eve, Peabody e gli altri del suo gruppo sono ormai rodate, non ci sono sorprese. L'unico avvenimento degno di nota è Trueheart che verso fine libro sostiene l'esame per diventare detective (e naturalmente lo passa).

Mah, vediamo cosa ci proporrà il prossimo titolo della serie. Dovrebbe uscire a febbraio del prossimo anno: penso che lo leggerò ma non farò certo il conto dei giorni che mancano alla sua uscita.

mercoledì 21 ottobre 2015

il museo egizio di torino

"La strada per Menfi e Tebe passa da Torino" (Jean-Francois Champollion)

Da generazioni, noi ex-bambini torinesi conosciamo bene il Museo Egizio di Torino, poiché è una delle visite pressoché d'obbligo che vengono fatte nel corso della nostra carriera scolastica. Soprattutto le mummie sono fra i reperti che colpiscono di più la nostra immaginazione. Ma non ci sono soltanto loro. L'estrema familiarità con questo museo a volte ci fa dimenticare che il Museo Egizio di Torino è uno dei più importanti al mondo per la tematica, secondo solo a quello del Cairo.


Al mondo ci sono altri musei famosi che conservano cimeli egizi, ad esempio il British Museum di Londra, il Louvre di Parigi o il Neues Museum di Berlino.
Però quello di Torino è unico e ha una connotazione particolare rispetto ad essi, dato che non solo illustra la storia dell'Antico Egitto e conserva pezzi di particolare interesse artistico e testi funerari e religiosi, ma anche armi, strumenti musicali, utensili, vestiti, resti di cibi, documenti pubblici e privati che raccontano la vita quotidiana dell'Egitto antico, affascinante e misterioso, dal 4000 a.C. al 700 d.C.


Come mai un museo del genere nacque proprio a Torino? Semplicemente perché prese vita, nel 1824, dalla fusione di due ricche collezioni: quella di Bernardino Drovetti e quella dei Savoia.
Il piemontese Drovetti era console generale di Francia in Egitto durante le campagne napoleoniche, e raccolse oltre 5000 pezzi antichi, che riportò a casa creando il primo nucleo della collezione. I Savoia la acquistarono unendola agli oggetti (statue, mummie e tavole) che avevano già acquisito nei decenni precedenti per arricchire il museo di antichità dell'Università torinese.
Si formò così un museo Egizio, primo al mondo di nome e di fatto, che venne collocato nel Palazzo dell'Accademia delle Scienze.


Gli oggetti documentavano soprattutto i periodi del Nuovo Regno e dell'Età Tarda (dalla metà del II al I millennio a.C), periodi più recenti rispetto all'epoca delle grandi piramidi. Questa lacuna venne colmata nei primi decenni del '900, grazie agli scavi archeologici condotti da Ernesto Schiaparelli e Giulio Farina, che fecero arrivare a Torino altri 18.000 oggetti.
Vennero ritrovate tombe a el-Giza, sculture delle prime dinastie, arredi intatti di tombe di ignoti dell'Antico Regno. Si trovarono anche i sarcofagi di Nefertari, moglie di Ramesse II, e la tomba intatta dell'architetto Kha e di sua moglie Merit.

Negli anni Sessanta la collezione crebbe ancora con il Tempio di Ellesjia, che venne donato dal governo egiziano all'Italia nel 1970, come ringraziamento per l'aiuto nel recupero dei templi nubiani minacciati dalla costruzione della diga di Assuan. Il tempio venne trasferito e fedelmente rimontato in un ambiente del Museo.


Secondo me le sale più monumentali del museo sono quelle dello statuario, che raccolgono le grandi statue delle divinità (molte raffigurazioni delle dee Bastet e Sekmet) e dei faraoni (bellissima la grande statua in basalto nero di Ramesse II).
L'allestimento attuale è stato ideato dallo scenografo premio Oscar Dante Ferretti, in occasione delle Olimpiadi invernali del 2006, svoltesi a Torino, il quale ha dato alle sale un'ambientazione buia molto suggestiva, con sapienti giochi di specchi.


Ma dopo le Olimpiadi è stato tutto il Museo Egizio ad essere oggetto di ristrutturazione. I cantieri sono andati avanti dal 2010 al 2015, per settori, senza mai chiudere il museo ai visitatori.

Il 1° aprile 2015 il nuovo Museo Egizio è stato presentato ufficialmente. Gli spazi espositivi sono stati ampliati, occupando anche i piani più alti del palazzo dell'Accademia delle Scienze (precedentemente occupati dalla Galleria Sabauda che è stata spostata), e le collezioni sono state ricollocate in senso cronologico.

Tutto il percorso di visita è stato impostato ex-novo: la biglietteria e il bookshop adesso si trovano al piano ipogeo (-1), insieme al settore dove viene illustrata tutta la storia del museo stesso. Si prende poi una moderna scala mobile - risalendo metaforicamente il fiume Nilo riprodotto su una parete laterale - per raggiungere il secondo piano, da dove ha inizio la visita.
Tutte le bacheche e le vetrine sono state riammodernate  e valorizzate al meglio, come spazi e come illuminazione.
I vecchi biglietti giallognoli con le scritte a macchina (che avevano un loro fascino retrò...) sono stati sostituiti da didascalie più ampie, in italiano e in inglese. Gli oggetti sono stati redistribuiti in modo radicale. Sono ora presenti postazioni multimediali di approfondimento.

Una curiosità: quando percorrete la Galleria dei Sarcofagi, alzate gli occhi verso il soffitto e osservate anche gli affreschi degli animali che fanno capolino dalle lunette in alto. Non hanno attinenza con l'Egitto, ma sono dipinti del vecchio museo di scienze che aveva sede nel palazzo nel '700, e che sono stati riscoperti dai lavori dei cantieri. Belli e delicati.


Il museo si è lanciato in un'intensa attività di promozione e comunicazione rivolta al grande pubblico. Anche Alberto Angela ha dedicato alla riapertura del museo la puntata-documentario "Una notte al museo", andata in onda su RaiUno.
Noi torinesi siamo molto fieri del nostro Museo Egizio, e siamo orgogliosi che venga scoperto ed apprezzato anche da un pubblico molto più ampio.

venerdì 2 ottobre 2015

le case cubo di rotterdam/2

Rotterdam è stata una città duramente colpita dai bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale. Buona parte del centro venne rasa al suolo, e nel dopoguerra si procedette lentamente alla sua ricostruzione.


Questo ha significato che nella seconda metà dello scorso secolo la città è stata un perfetto canovaccio sul quale diversi architetti si sono sbizzarriti. Uno degli aspetti che infatti colpiscono di più il visitatore, oltre all'enorme porto, è l'architettura estremamente moderna dei palazzoni del centro e dei ponti. E il lavoro di ricostruzione prosegue tutt'oggi costantemente, tanto che ritornando a Rotterdam dopo alcuni anni si viene accolti da nuove costruzioni avveniristiche.


In mezzo a tanti palazzoni e opere risaltano in modo particolare le originalissime case cubo di Piet Blom, realizzate negli anni Ottanta. Si affacciano sull'Oudehaven, un'ansa raccolta del vecchio porto in pieno centro, con il loro giallo intenso che le fa assomigliare a tanti favi di un alveare.
Questo complesso di edifici a cubo comprende abitazioni, alcuni negozi, aule di scuola, spazi di passaggio, e addirittura un ostello.

Una casa cubo in particolare è aperta al pubblico, e rappresenta una sorta di museo grazie alla quale si comprende meglio l'utilizzo degli spazi all'interno. La casa-cubo standard è ripartita su tre piani.
Il piano inferiore, dove si entra, rappresenta la zona soggiorno e in un angolo è collocata la cucina; al piano intermedio - quello più largo - c'è una camera da letto, uno spazio studio e un piccolo bagno; al piano superiore c'è un ulteriore spazio living (l'attico!).
Ovviamente in ciascun piano bisogna anche tenere conto dello spazio occupato dalla scala!



Senza visitare la casa-museo non si riesce a rendersi conto fino in fondo di quanto ogni centimetro cubico sia sfruttato a fini abitativi.
Non avrei mai pensato che fosse possibile recuperare tutto quello spazio al loro interno. E nemmeno che questi enormi cubi potessero essere davvero funzionali e ci si potesse realmente abitare, ma entrandoci ti rendi conto che invece è così.
Certo, bisogna farsi fare tutti i mobili su misura, non bisogna avere problemi di deambulazione (persone anziane, disabili o con bimbi piccoli non sarebbero esattamente gli inquilini ideali), ma per una persona "media" va bene.