lunedì 26 settembre 2016

i tacchi di kate

Ma ditemi come fa la duchessa di Cambridge a portare sempre dei vertiginosi tacchi a spillo durante le uscite pubbliche, e nel muoversi (apparentemente) in maniera agevole e senza difficoltà? Qui è durante la visita ufficiale in Canada di questi giorni, eppure ha dovuto scendere dalla scaletta metallica dell'idrovolante piena di buchini, e transitare su quella passerella che non mi dà l'idea di massima stabilità...

Qui scendendo di nuovo dalla scala - ben più lunga - dell'aereo di linea, ma addirittura con la principessina Charlotte in braccio e il principe George per mano dall'altra parte. Altro che le discese di Vanda Osiris...

E qui durante una visita di tutta la famigliola a un elicottero della Royal Air Force.

Chapeau. Io porto normalmente scarpe col tacco molto più basso, per una semplice questione di comodità e per non rovinarmi volontariamente i piedi.
Ma tanto di cappello a Kate, che riesce a muoversi su quei trampoli senza inciampare, e dando l'impressione di non star facendo alcuna fatica, in ogni condizione.



Non posso fare a meno di postare anche quest'ultima foto, vista l'eccezionalità delle scarpe che qui porta Kate. Si tratta di un bel paio di stivaloni col tacco basso. Per una volta :-)
Ma in questo caso si trattava di una visita ufficiale in India/Bhutan dell'aprile 2016, e i due principi stavano visitando dei posti in alta montagna. I tacchi sarebbero stati del tutto fuori contesto, nonché un biglietto sicuro per rompersi una gamba (o peggio).

mercoledì 21 settembre 2016

brotherhood in death

Dennis, il marito della dottoressa Mira, si trova di fronte a due spiacevoli sorprese. Innanzitutto viene a sapere che suo cugino Edward sta incontrando a sua insaputa un agente immobiliare per vendere la casa ereditata dal loro vecchio nonno nel West Village, nonostante la promessa che era stata fatta di tenere l'immobile in famiglia.
Poi, quando l'uomo si reca alla casa per discutere di questa cosa con Edward, lo vede legato ad una sedia e viene subito ferito in testa da un oggetto contundente, perdendo conoscenza.

Ma per fortuna la dottoressa Charlotte Mira, profiler della polizia di New York, è una buona amica del tenente Eve Dallas. Dennis spiega a Eve che l'ultima cosa che ha visto è stata Edward legato ad una sedia, ammaccato e sanguinante. Una volta ripresosi dalla botta in testa, il cugino era sparito. E purtroppo non sono rimasti molti indizi: il sangue è stato ripulito e le registrazioni della videosorveglianza sono state portate via.

Edward Mira è stato un avvocato, un giudice ed ex-senatore, e come tale si è relazionato con persone importanti, ha incrociato la propria strada con molti criminali, e si è fatto molti nemici. Grazie all'aiuto del distintivo (e di suo marito, il miliardario Roarke) il tenente Eve Dallas intende far luce sugli affari sporchi del senatore Mira, e sui motivi oscuri che sembrano star dietro alla scomparsa dell'uomo. Purtroppo ben presto il cadavere del senatore viene ritrovato impiccato e seviziato, proprio nella casa vuota dalla quale era sparito. Evidentemente l'assassino è riuscito a passare sotto al naso della polizia.

E proprio quando nessuno se lo aspetta, un altro uomo importante, anch'egli vecchio amico del senatore Mira, viene trovato assassinato con le stesse modalità.
Già all'inizio delle indagini, Eve sospetta che la causa sia da ricercare nel passato dei due, nella cerchia delle amicizie che i due avevano stretto a partire dagli anni dell'università a Yale. Ed Eve sospetta anche che, viste le modalità delle uccisioni, il movente sia da ricercarsi nella vendetta di stampo sessuale, probabilmente da parte di una o più donne.
Emerge così una squallida e triste vicenda iniziata a Yale quasi cinquant'anni prima, dove una cerchia di sei amici, capitanata da Edward Mira, abusava di giovani donne dopo averle drogate, cancellandone poi la memoria. I brutali omicidi sarebbero quindi semplicemente le vendette da parte di alcune vittime, riunitesi in un gruppo. E i due uomini già uccisi non sono gli unici che facevano parte della cerchia di Yale...

Allora: questo nuovo episodio delle avventure di Eve Dallas (è il 43esimo, ormai mi perdo...) mi è piaciuto più degli ultimi. Se non altro, il dilemma riguardante il quanto fosse giusto che le vittime si facessero giustizia da sole, per le traumatiche violenze a cui erano state esposte, non è di poco conto. E' naturale essere portati a solidarizzare più con le donne coinvolte - in questo caso le assassine - che non con gli uomini uccisi - vittime in questo caso, ma in passato colpevoli di ripetuti atti di cruda violenza.

E anche Eve ne è coinvolta, dato che anche nel suo passato c'era una storia di questo tipo. Addirittura poi parla apertamente di ciò che le è successo, prima con Peabody e poi con Dennis Mira, una cosa che la Eve dei primi libri non avrebbe mai fatto. Mai e poi mai! Che il nostro tenente stia maturando? Durante il suo racconto a Peabody accenna a quale sia stata per lei l'importanza di darsi uno scopo nella vita grazie alla carriera in polizia, di quanto sia stato importante ottenere i gradi di tenente, e di quanto saranno importanti quelli di capitano, suo prossimo obiettivo.
Peccato però che soltanto pochi libri fa (equivalenti a nemmeno 2-3 mesi, nello svolgersi della narrazione) sia stata proprio lei, Eve, a rifiutare il passaggio al grado superiore, che il comandante Whitney le aveva detto essere pronto. Forse la Robb non se n'è più ricordata o forse non è stata attenta a ciò che ha scritto.

Già dai primi momenti dell'investigazione Eve ha l'intuizione che la porta ad individuare i nomi delle colpevoli (anche se non ancora di tutte quante le complici), per cui la dinamica dell'indagine non si muove alla ricerca dei colpevoli, bensì diviene una lotta contro il tempo per evitare che anche gli altri uomini vengano uccisi, e per cercare di incastrare le donne del gruppo.

martedì 20 settembre 2016

l'ultima carezza

L'ultima carezza
di Catherine Guillebaud
Elliot Edizioni

Il suo nome è Mastic des Feux Mignons. Da parte di padre discende da Ian du Bec-Etoile e, da parte di madre, da Ceenzo Vitoune de la Mutinerie. È un setter inglese, nato il 17 aprile del 1994. Secondo la tradizione di famiglia, Lei lo ha immediatamente ribattezzato non appena arrivato nella sua nuova casa e così è diventato Joyce, in ricordo di chi sappiamo, patronimico scelto anni prima per il suo predecessore, irlandese anche lui. Tra Lei e lui è subito nata una storia d’amore.
Una storia vissuta attraverso la casa, l’alternarsi delle stagioni, dei piccoli gesti ripetuti all’infinito, che poco a poco tessono, nel susseguirsi dei giorni, la trama di una famiglia e di una vita, tutto raccontato attraverso lo sguardo di un cane pieno di gioia, sentimento, intelligenza e ironia. Scritto con eleganza e delicatezza di stile, è l’omaggio tenero, pieno di profonda empatia nei confronti degli animali che ci osservano e ci amano senza riserve.


E' un racconto delicato, narrato in prima persona (!) da Joyce, un ormai vecchio setter inglese di quattordici anni, che - arrivato alla fine dei propri giorni - narra della sua vita come Cane di casa.
La sua famiglia vive in una casa da favola, immersa in un grande parco, non troppo lontano da Parigi. Joyce non è l'unico animale a condividere l'esistenza con Lei, lui e le due sorelle, ormai cresciute: nel corso degli anni vi sono stati gatti - uno dei quali, l'altrettanto anziano Opium, è tuttora suo migliore amico - cagne, e cavalli. Una vita da gentiluomo (pardon, gentil-cane) di campagna, insomma, nella quale c'è stato un periodo difficile causato dalle pecore della fattoria vicina, ma che per il resto è stata sempre felice.
Saggio e divertente, Joyce rivela tutto l'amore, la dedizione e la fedeltà che ha sempre portato ai suoi padroni (soprattutto a Lei).

Chi ha posseduto un cane sarà toccato da questa storia, e vi troverà molte scene vere e vissute. Non ci sono grandi avvenimenti, ma la semplice quotidianità dell'esistenza con un animale domestico, vista però con gli occhi del pelosone.
 

giovedì 15 settembre 2016

il museo ebraico di berlino

Una delle architetture di Berlino più sorprendenti create negli anni Duemila è l'edificio che ospita lo Judisches Museum (Museo Ebraico), nel quartiere di Kreuzberg, aperto nel 2001.

L'edificio è stato progettato dall'architetto polacco Daniel Libeskind. L'intera struttura è rivestita da una facciata di metallo lucente, con tutta una serie di sottili fessure a zig-zag che assomigliano a ferite, a cicatrici aperte.



L'idea è quella di rappresentare, mediante la costruzione stessa, uno spazio disturbato e scomodo che rispecchi la difficile storia della cultura e della società ebraica in Germania nel corso dei secoli. Gli spazi vuoti in diverse parti dell'edificio si estendono verticalmente attraverso l'intero museo, e nelle intenzioni dell'architetto vogliono essere metafora dell'assenza degli ebrei dalla società tedesca.

Non c'è un ingresso principale, e difatti l'accesso al museo avviene dalla facciata barocca del vecchio edificio adiacente.



Una volta passati i controlli dei metal detector si trova la biglietteria, poi mediante una scala si scende in un corridoio sotterraneo che raggiunge l'inizio dell'esposizione permanente, dove si sviluppano i tre assi principali.

Prima di cominciare il giro, è utile soffermarsi negli spazi del <strong>Learning Center</strong>, dove si possono guardare filmati introduttivi, oppure usufruire di postazioni multimediali (in tedesco e in inglese) che raccontano per sommi capi la storia degli ebrei, non solo in Germania, oppure determinati concetti, ad esempio cosa significa "kosher".

Nel piano sotterraneo, l'asse dell'Olocausto e l'asse dell'Esilio espongono oggetti legati alle persecuzioni degli ebrei durante il nazismo. In fondo al primo corridoio c'è una porta che permette di entrare nella Torre dell'Olocausto, uno spazio chiuso, vuoto e buio che si sviluppa verso l'alto.

In fondo al corridoio dell'Esilio si trova invece uno spazio esterno, il Giardino dell'Esilio, dove una serie di 49 alti parallelepipedi di cemento, con alberi piantati in cima, sono disposti in maniera particolare rispetto al dislivello del terreno, tanto da creare una forte sensazione di disagio in chi ci cammina in mezzo. E' successo sia a me, sia alle persone che erano con me, ma è un effetto voluto.



Il terzo asse, quello della Continuità, porta invece i visitatori verso la scala che li conduce al secondo piano, da dove comincia la visita.

E' però d'obbligo una tappa intermedia al piano terra, verso il cosiddetto Vuoto della Memoria. Si tratta di uno stretto spazio verticale che si sviluppa verso l'alto, sul cui pavimento ci sono oltre 10mila maschere rotonde di ferro, sagomate a forma di volto, su cui i visitatori camminano.

E' un'installazione di un artista israeliano, Menashe Kadishman, realizzata apposta per questo luogo, dedicata a tutte le vittime innocenti della guerra e della violenza, e prende il nome di "Shalekhet" (Foglie cadute). Il rumore dei passi dei visitatori sulle maschere di ferro è impressionante, e si sente già dalle sale attigue. Un rumore molto simile a quello dei piatti lavati e riposti nella cucina di un ristorante, ma moltiplicato per grandi numeri.



Si ritorna indietro e si risale sino al secondo piano, dove ha inizio l'esposizione permanente. Si viene subito accolti da un colorato e poetico albero, tra le cui foglie i visitatori sono invitati ad appendere un bigliettino a forma di melagrana sul quale scrivere un desiderio, un augurio per il mondo. L'idea mi è sembrata molto bella.



La mostra comincia poi dalla storia delle prime comunità ebraiche lungo il Reno, passando attraverso la vita delle donne ebree, gli oggetti tradizionali e i rituali, i cambiamenti e gli adattamenti agli stili di vita delle varie epoche.



Si scende al primo piano, con i cimeli delle ricche famiglie borghesi di mercanti, imprenditori e scienziati, le testimonianze dell'attiva e produttiva partecipazione ebraica alla vita tedesca dell'Ottocento. Per arrivare agli anni del Nazismo e delle persecuzioni, e giungere infine all'oggi, momento in cui la comunità ebraica tedesca è nuovamente rappresentata da circa 100mila persone.



Una visita a questo museo è veramente istruttiva, nonché toccante, viste le tematiche.

Noi abbiamo potuto dedicarci soltanto un paio d'ore (salvo poi essere bloccati nell'ampio cortile coperto del caffé interno per almeno una buona mezzora da un super temporale), ma, se avete maggior tempo a disposizione, vi consiglio di passarci almeno una mezza giornata. Avrete tempo di ascoltare e leggere le varie spiegazioni e didascalie con maggior calma, e sicuramente uscirete da lì con una maggiore consapevolezza.


mercoledì 7 settembre 2016

istantanee berlinesi


- cantieri dappertutto, cantieri infiniti;
- l'uso dei caratteri gotici sulle indicazioni stradali e toponomastiche;
- le sagome dell'omino rosso (fermo frontalmente) e di quello verde (di profilo, al passo) ai semafori;
- i tantissimi palazzi scuri di fuliggine;
- i semafori che danno il tempo di attraversare, se hai già impegnato il passaggio, anche se nel frattempo per te sono diventati rossi;
- i bus sempre in orario e molto frequenti, anche negli orari serali;
- i cortili interni delle birrerie;
- un italiano che sbuca fuori a consigliarti in quasi ogni momento;
- tanta gente con cani;
- i negozi di scarpe tedeschi mi piacciono più di quelli italiani;
- i prezzi di cibo & co. sono molto più bassi e convenienti di quanto mi aspettassi. E' tutto più conveniente che in Italia (e non credo dipenda soltanto dall'Iva al 19% invece che al 22%);
- la metro U e S ad accesso praticamente libero, senza tornelli né all'entrata né all'uscita;
- le macchinette automatiche per i biglietti del treno/metro soltanto in tedesco;
- la consapevolezza che il mio primo corso di tedesco (25 lezioni) non è assolutamente sufficiente;
- persone che camminavano scalze per strada;
- la meraviglia del parco di Sanssouci, ad accesso libero;
- il Berliner Weisse rosso e verde (con l'aggiunta di succo di lampone oppure di erba odorosa);
- le cartoline coi pezzi del Muro;
- il marciapiede con le stelle del cinema tedesco in Postdamer Strasse;
- i numerosissimi parchi e zone verdi;
- la presenza di vaste zone boscose e lacustri subito intorno alla città.


martedì 6 settembre 2016

sam heughan per barbour

Quest'oggi faccio un post che risulterà pubblicità bella e buona, macchisenefrega. Io tanto non ci guadagno niente (poi se la Barbour decidesse di regalarmi un giaccone, anche di una vecchia collezione, io non mi scanserei, eh...)



Da un paio di mesi Sam Heughan è diventato Global Brand Ambassador del marchio Barbour, storica ditta produttrice di giacconi comodi e impermeabili, resi lucidi dalla cera, nati per essere usati dagli agricoltori nella gelida brughiera inglese, oltre che da cacciatori e pescatori. In realtà negli ultimi decenni questi giacconi hanno avuto un successone soprattutto all'estero. Ne possiedo uno pure io, anche se, ehm... tarocco...



Il ruolo preciso di un Global Brand Ambassador non saprei definirlo, ma suppongo non sia troppo dissimile dall'essere un testimonial, riconosciuto a livello transnazionale.



Per chi stesse leggendo qua e non sapesse chi è Sam Heughan, provvedo subito ad illuminarlo. Sam è un attore scozzese, ed è anche il protagonista maschile della serie televisiva "Outlander", nella quale interpreta un laird scozzese del XVIII secolo.

Le sue fotografie per il Barbour fanno tanto "signore del castello", ma anche se Sam non indossa il kilt - come nel telefilm - l'atmosfera gli si confà benissimo. Aggiungiamoci anche la presenza di quel bellissimo labrador color cioccolata, e credo non sia necessario dilungarmi sul perché abbia pensato di dedicargli questo post :-D


C'è anche un filmato disponibile qua: https://youtu.be/F7e4V-170gU