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lunedì 7 novembre 2016

tutta la luce che non vediamo

Anthony Doerr, Tutta la luce che non vediamo

È il 1934, a Parigi, quando a Marie-Laure, una bambina di sei anni con i capelli rossi e il viso pieno di lentiggini, viene diagnosticata una malattia degenerativa: sarà cieca per il resto della vita. Ne ha dodici quando i nazisti occupano la città, costringendo lei e il padre a trovare rifugio tra le mura di Saint-Malo, nella casa vicino al mare del prozio. Attraverso le imposte azzurre sempre chiuse, perché così impone la guerra, le arriva fragorosa l'eco delle onde che sbattono contro i bastioni. Qui, Marie-Laure dovrà imparare a sopravvivere a un nuovo tipo di buio.

In quello stesso anno, in un orfanotrofio della Germania nazista vive Werner, un ragazzino con i capelli candidi come la neve e una curiosità esuberante per il mondo. Quando per caso mette le mani su una vecchia radio, scopre di avere un talento naturale per costruire e riparare questi strumenti di fondamentale importanza per le tattiche di guerra, un dono che si trasformerà nel suo lasciapassare per accedere all'accademia della Gioventù hitleriana, e poi partire in missione per localizzare i partigiani. Sempre più conscio del costo in vite umane del suo operato, Werner si addentra nel cuore del conflitto.

Due mesi dopo il D-Day che ha liberato la Francia, ma non ancora la cittadina fortificata di Saint-Malo, i destini opposti di Werner e Marie-Laure convergono e si sfiorano in una limpida bolla di luce.

Il libro è impostato a mo' di puzzle, con capitoli brevi e molto numerosi: sembra quasi di "leggere" i fotogrammi di una storia. A me questa particolarità è piaciuta molto, e ha contribuito fortemente a stimolare la lettura. Di solito scelgo di mettere in pausa la lettura alla fine di un capitolo, e visto che qui i capitoletti erano molto brevi, continuavo a dirmi massì, ne leggo ancora uno prima di chiudere, e andavo avanti così per delle mezzore...

C'è un'alternanza di piani temporali e un andare avanti e indietro cronologicamente per blocchi di capitoli. Onestamente io non ho avuto problemi e non ho trovato difficoltà ad orientarmi - è stato tutto chiaro - però ho visto da commenti sparsi che alcuni lettori si sono trovati un po' spiazzati (e allora vorrei vedere queste persone alle prese col libro che sto leggendo adesso: quello sì che salta avanti-indietro di decenni ad ogni capitolo).

La storia del diamante maledetto, che aveva reso immortale un principe ma aveva provocato la morte delle persone vicine a lui, si interseca con la storia di Marie-Laure e di suo padre, ed è altrettanto intrigante, ma alla fine si stempera un po' e perde di interesse.

Comunque un libro che mi è piaciuto veramente molto (e poi apprezzo particolarmente le ambientazioni in luoghi dove sono stata), anche se ho avuto un po' di delusione nella parte finale. Non che mi aspettassi un lieto fine, men che meno un destino comune per Marie-Laure e Werner, però ho avvertito un leggero senso di desolazione e rimpianto.
La morte di Werner mi è sembrata particolarmente inutile, dato che non è dipesa né da un atto eroico, né da un suo sacrificio per salvare altre persone. Una pura scelta narrativa, mentre invece avrebbe potuto salvarsi anche lui come il suo compagno della Wermacht.

giovedì 15 settembre 2016

il museo ebraico di berlino

Una delle architetture di Berlino più sorprendenti create negli anni Duemila è l'edificio che ospita lo Judisches Museum (Museo Ebraico), nel quartiere di Kreuzberg, aperto nel 2001.

L'edificio è stato progettato dall'architetto polacco Daniel Libeskind. L'intera struttura è rivestita da una facciata di metallo lucente, con tutta una serie di sottili fessure a zig-zag che assomigliano a ferite, a cicatrici aperte.



L'idea è quella di rappresentare, mediante la costruzione stessa, uno spazio disturbato e scomodo che rispecchi la difficile storia della cultura e della società ebraica in Germania nel corso dei secoli. Gli spazi vuoti in diverse parti dell'edificio si estendono verticalmente attraverso l'intero museo, e nelle intenzioni dell'architetto vogliono essere metafora dell'assenza degli ebrei dalla società tedesca.

Non c'è un ingresso principale, e difatti l'accesso al museo avviene dalla facciata barocca del vecchio edificio adiacente.



Una volta passati i controlli dei metal detector si trova la biglietteria, poi mediante una scala si scende in un corridoio sotterraneo che raggiunge l'inizio dell'esposizione permanente, dove si sviluppano i tre assi principali.

Prima di cominciare il giro, è utile soffermarsi negli spazi del <strong>Learning Center</strong>, dove si possono guardare filmati introduttivi, oppure usufruire di postazioni multimediali (in tedesco e in inglese) che raccontano per sommi capi la storia degli ebrei, non solo in Germania, oppure determinati concetti, ad esempio cosa significa "kosher".

Nel piano sotterraneo, l'asse dell'Olocausto e l'asse dell'Esilio espongono oggetti legati alle persecuzioni degli ebrei durante il nazismo. In fondo al primo corridoio c'è una porta che permette di entrare nella Torre dell'Olocausto, uno spazio chiuso, vuoto e buio che si sviluppa verso l'alto.

In fondo al corridoio dell'Esilio si trova invece uno spazio esterno, il Giardino dell'Esilio, dove una serie di 49 alti parallelepipedi di cemento, con alberi piantati in cima, sono disposti in maniera particolare rispetto al dislivello del terreno, tanto da creare una forte sensazione di disagio in chi ci cammina in mezzo. E' successo sia a me, sia alle persone che erano con me, ma è un effetto voluto.



Il terzo asse, quello della Continuità, porta invece i visitatori verso la scala che li conduce al secondo piano, da dove comincia la visita.

E' però d'obbligo una tappa intermedia al piano terra, verso il cosiddetto Vuoto della Memoria. Si tratta di uno stretto spazio verticale che si sviluppa verso l'alto, sul cui pavimento ci sono oltre 10mila maschere rotonde di ferro, sagomate a forma di volto, su cui i visitatori camminano.

E' un'installazione di un artista israeliano, Menashe Kadishman, realizzata apposta per questo luogo, dedicata a tutte le vittime innocenti della guerra e della violenza, e prende il nome di "Shalekhet" (Foglie cadute). Il rumore dei passi dei visitatori sulle maschere di ferro è impressionante, e si sente già dalle sale attigue. Un rumore molto simile a quello dei piatti lavati e riposti nella cucina di un ristorante, ma moltiplicato per grandi numeri.



Si ritorna indietro e si risale sino al secondo piano, dove ha inizio l'esposizione permanente. Si viene subito accolti da un colorato e poetico albero, tra le cui foglie i visitatori sono invitati ad appendere un bigliettino a forma di melagrana sul quale scrivere un desiderio, un augurio per il mondo. L'idea mi è sembrata molto bella.



La mostra comincia poi dalla storia delle prime comunità ebraiche lungo il Reno, passando attraverso la vita delle donne ebree, gli oggetti tradizionali e i rituali, i cambiamenti e gli adattamenti agli stili di vita delle varie epoche.



Si scende al primo piano, con i cimeli delle ricche famiglie borghesi di mercanti, imprenditori e scienziati, le testimonianze dell'attiva e produttiva partecipazione ebraica alla vita tedesca dell'Ottocento. Per arrivare agli anni del Nazismo e delle persecuzioni, e giungere infine all'oggi, momento in cui la comunità ebraica tedesca è nuovamente rappresentata da circa 100mila persone.



Una visita a questo museo è veramente istruttiva, nonché toccante, viste le tematiche.

Noi abbiamo potuto dedicarci soltanto un paio d'ore (salvo poi essere bloccati nell'ampio cortile coperto del caffé interno per almeno una buona mezzora da un super temporale), ma, se avete maggior tempo a disposizione, vi consiglio di passarci almeno una mezza giornata. Avrete tempo di ascoltare e leggere le varie spiegazioni e didascalie con maggior calma, e sicuramente uscirete da lì con una maggiore consapevolezza.


mercoledì 7 settembre 2016

istantanee berlinesi


- cantieri dappertutto, cantieri infiniti;
- l'uso dei caratteri gotici sulle indicazioni stradali e toponomastiche;
- le sagome dell'omino rosso (fermo frontalmente) e di quello verde (di profilo, al passo) ai semafori;
- i tantissimi palazzi scuri di fuliggine;
- i semafori che danno il tempo di attraversare, se hai già impegnato il passaggio, anche se nel frattempo per te sono diventati rossi;
- i bus sempre in orario e molto frequenti, anche negli orari serali;
- i cortili interni delle birrerie;
- un italiano che sbuca fuori a consigliarti in quasi ogni momento;
- tanta gente con cani;
- i negozi di scarpe tedeschi mi piacciono più di quelli italiani;
- i prezzi di cibo & co. sono molto più bassi e convenienti di quanto mi aspettassi. E' tutto più conveniente che in Italia (e non credo dipenda soltanto dall'Iva al 19% invece che al 22%);
- la metro U e S ad accesso praticamente libero, senza tornelli né all'entrata né all'uscita;
- le macchinette automatiche per i biglietti del treno/metro soltanto in tedesco;
- la consapevolezza che il mio primo corso di tedesco (25 lezioni) non è assolutamente sufficiente;
- persone che camminavano scalze per strada;
- la meraviglia del parco di Sanssouci, ad accesso libero;
- il Berliner Weisse rosso e verde (con l'aggiunta di succo di lampone oppure di erba odorosa);
- le cartoline coi pezzi del Muro;
- il marciapiede con le stelle del cinema tedesco in Postdamer Strasse;
- i numerosissimi parchi e zone verdi;
- la presenza di vaste zone boscose e lacustri subito intorno alla città.


mercoledì 3 aprile 2013

robert capa

Robert Capa. Retrospettiva
Palazzo Reale, Torino
(15 marzo - 14 luglio 2013)
Contadino siciliano indica a un ufficiale americano la direzione presa dai tedeschi, 1943

Raid aereo sopra Barcellona, 1939

Morte di un miliziano lealista, Spagna, inizio settembre 1936

Tè in un rifugio antiaereo, Londra, 1941

Uomo e gatto in attesa dei raid aerei, Londra, 1941

Soldati americani feriti in un ospedale di fortuna nella chiesa di Maiori, Italia, 1943

Ufficiale tedesco perquisito da un soldato americano, Francia, 1944

Donna con testa rasata per aver avuto un bambino con un soldato tedesco, Chartres, agosto 1944

Uno degli ultimi soldati a morire colpito da un cecchino, Lipsia, maggio 1945

Una donna porta i suoi bagagli accompagnata da un bambino, Haifa, Israele, 1949-50

L'esposizione racconta il percorso umano e artistico di Capa attraverso 97 fotografie in bianco e nero, raggruppate in undici sezioni: Leon Trotsky (1932), France (1936-1939), Spain (1936-1939), China (1938), Britain & Italy (1941-1944), France (1944), Germany (1945), Eastern Europe (1947-1949), Israel (1948-1950), Indochina (1954), Friends.

Articolo sulla mostra tratto da "La Stampa":

Robert Capa in mostra a Torino, la guerra con la Leica in tasca

di Rocco Moliterni
Si può partire da quell’ultima immagine che diventa quasi simbolica: come nella scena finale di un film due motociclisti sembrano andarsene tra la polvere, in Vietnam, sulla strada che porta da Nam Dinh a Tahai Binh. È il 25 maggio del 1954, di lì a poco su quella stessa strada una mina farà saltare in aria, a soli 40 anni, l’autore di quello scatto: Robert Capa, uno dei più grandi fotografi del Novecento, fondatore tra l’altro, con Henri Cartier-Bresson, dell’Agenzia Magnum.

A rilanciare l’epopea di Capa, nel centenario della nascita, è da oggi a Palazzo Reale di Torino, la retrospettiva curata da Lorenza Bravetta, responsabile Europa della Magnum, e organizzata da Silvana editoriale in collaborazione con la stessa Magnum e con il patrocinio del Comune di Torino. La mostra ripercorre la breve e intensa carriera di Capa, proponendo 97 immagini in undici sezioni. Si parte così con le celebri foto di Trotsky, realizzate da Capa nel 1932 quando all’anagrafe faceva ancora Endre Ernö Friedmann ed era un giovane ungherese riparato a Berlino. Qui si arrangiava facendo l’assistente in camera oscura all’agenzia Dephot. Fu il suo primo grande scoop: il rivoluzionario sovietico doveva parlare allo stadio di Copenhagen, ma non voleva essere fotografato. Così i fotoreporter di tutto il mondo arrivati nella capitale danese con le loro voluminose apparecchiature vennero bloccati all’ingresso. «Io - racconterà anni dopo Capa - portavo in tasca una piccola Leica, quindi a nessuno venne in mente che fossi un fotografo. Quando arrivarono gli operai che dovevano portare lunghi tubi di acciaio nella sala, mi unii a loro e con la mia Leica, andai alla ricerca di Trotsky».

Ma l’avvento del nazismo costringe il giovane ungherese di origine ebraica a lasciare Berlino per approdare a Parigi. Qui si innamora non solo della città ma anche di Gerda Taro, una fotografa tedesca che prima gli consiglia di cambiare il nome in Capa e poi lo aiuta vendere le foto nelle agenzie parigine. Di quel periodo in mostra vediamo Leon Blum e i sostenitori del Fronte Popolare, leader sindacali sul palco e bambini con il pugno chiuso. Poi verrà la guerra di Spagna e qui Capa perderà la sua compagna Gerda Tara in un incidente sotto un attacco aereo tedesco, ma nel settembre del 1936 realizzerà il Miliziano che muore, una fotografia che diventa ben presto non solo l’icona della guerra di Spagna ma una delle più famose immagini del Novecento.
La rivediamo accanto a foto di gente che corre a Bilbao verso i rifugi e di profughi repubblicani nei campi francesi quando ormai la Repubblica è sconfitta, nel 1939. Nel frattempo Capa è riuscito anche ad andare in Cina, realizzando un reportage in cui ci sono tanto Chang Kai-shek quanto la moglie, spettacoli di propaganda e un’immagine di bambini che giocano nella neve con i loro cappotti lunghi che oggi ci colpisce perché sembra anticipare i pretini di Giacomelli.

Poi sarà la volta, tra il 1941 e il 1944, dei grandi reportage della Gran Bretagna sotto i bombardamenti e dell’Italia dove sono appena sbarcati gli americani:  Capa fotografa il contadino siciliano che indica la strada a un marine americano, le donne di Cassino con le ceste in testa, e (bellissima) i soldati americani feriti che fumano in una chiesa di Maiori trasformata in ospedale da campo. Poi il 6 giugno del 1944 Capa, cui non manca certo il coraggio, sbarca con gli alleati a Omaha Beach in quello che passerà alla storia come il D-Day. «Le pallottole aprivano buchi nell’acqua intorno a me», scrisse. «Era molto presto e la luce era molto grigia per scattare buone fotografie, ma l’acqua e il cielo grigi rendevano di grande effetto quegli omini che si barcamenavano fra i piani surreali della squadra hitleriana anti-invasione».

Capa scatta quattro rullini da 36 foto e ritorna in Gran Bretagna perché possano essere sviluppate al più presto: «Quando - raccontava ieri alla presentazione della mostra il 94 enne John Morris, che fu amico di Capa, nonchè direttore di Magnum e che all’epoca lavorava per «Time» a Londra - arrivarono nei nostri studi li mandammo subito in camera oscura. Ma un giovane assistente preso dall’ansia sbagliò qualcosa e venne da me costernato a dirmi che tutti i rullini erano inutilizzabili. Andai a vedere, era un disastro, ma nel quarto rullino riuscimmo a salvare 11 scatti». Sono quelli, in parte mossi e sfocati, che fecero il giro del mondo e che ancora adesso sono immagini simbolo della Seconda guerra mondiale. Dalla Normandia Capa segue le truppe alleate a Parigi e racconta la liberazione della città, con il generale De Gaulle in parata e le giovani collaborazioniste dalla testa rasata. Di qui si sposta in Germania a documentare le distruzioni di Berlino (e c’è una foto che sembra quasi, non fosse per quegli uomini in bicicletta, una Beirut di Basilico). Nel dopoguerra la curiosità spinge Capa in Ucraina dove ci restituisce contadine sorridenti e famiglie che mangiano in fattorie collettive e coppie che danzano a piedi nudi.

C’è ancora il tempo di andare in Israele, anche qui bambini in campi per immigrati e donne sfollate che portano pesanti valigie sulla testa. Poi ci sarà l’Indocina e il «finale di partita». Capa non è stato però solo un fotografo di guerra, ma un uomo di grande sensibilità e ironia (come si intuisce dal ritratto che gli fa Ruth Ohkin): amava la vita, gli amici e le donne. Per cui l’ultima sezione sfodera celebri immagini di Hemingway, Picasso, Faulkner, Truman Capote e lo splendido collo di Ingrid Bergman, con cui ebbe una travolgente e sfortunata storia d’amore, iniziata con un bigliettino fatto passare sotto la porta della stanza d’hotel dell’attrice. Per sintetizzare la sua grandezza val la pena ricorrere a quanto scrisse il suo amico John Steinbeck: «Capa sapeva che non si può fotografare la guerra, perché si tratta per lo più di un’emozione: Ma lui riuscì a catturare quell’emozione scattando accanto ad essa. Era in grado di mostrare l’orrore patito da un intero popolo sul volto di un bambino». 

lunedì 11 febbraio 2013

eredità

È il novembre del 1918, e il mondo di Rosa Tiefenthaler Rizzolli è andato in frantumi. L’Impero austroungarico in cui è nata e vissuta non esiste più: con poche righe su un Trattato di pace la sua terra, il Sudtirolo, è passata all’Italia. "Il nostro cuore e la nostra mente rimarranno tedeschi in eterno", scrive Rosa sul suo diario. Colta e libera per il suo tempo, lo tiene da quasi vent’anni, dal giorno del suo matrimonio con l’amato Jakob. Mai avrebbe pensato di riversare nelle sue pagine una così brutale lacerazione. Ne seguiranno molte altre. In pochi anni l’avvento del fascismo cambia il suo destino. Cominciano le persecuzioni per lei e per la sua famiglia, colpevoli di voler difendere la loro lingua e la loro identità: saranno arrestati, incarcerati, mandati al confino. E Rosa assiste impotente al naufragio di tutte le sue certezze. Intorno a lei, troppi si lasciano sedurre da un sogno pericoloso che si sta affacciando sulla scena europea: quello della Germania nazista. Non potrà impedire che Hella, la figlia minore, sia presa nel vortice dell’ideologia fatale di Hitler. E presto dovrà affrontare la scelta impossibile tra l’oppressione e l’esilio. Nata austriaca, vissuta sotto l’Italia, morta all’ombra del Reich, Rosa è il simbolo dei tormenti di una terra di confine.
Su quella frontiera è cresciuta Lilli Gruber, sua bisnipote, che oggi attinge alle parole del suo diario. E racconta una pagina di storia personale e collettiva in questo libro appassionato, teso sul filo del ricordo, illuminato da una felice vena narrativa.

Questo è un libro che è servito a farmi vedere con occhi diversi la situazione degli abitanti dell'Alto Adige (o, come direbbero loro stessi, Sud Tirolo). Purtroppo io non ho una conoscenza diretta né dei luoghi né delle persone. Per me - come suppongo per la maggior parte degli italiani - gli altoatesini erano degli italiani che godono di molte agevolazioni grazie allo statuto speciale della loro provincia e della loro regione, e che parlano l'italiano con un forte accento tedesco (si sente lontano un miglio che per loro è una seconda lingua): italiani un po' sui generis, insomma, nonostante le agevolazioni economiche che lo stato italiano riserva loro... e questo è uno degli aspetti che esternamente, non conoscendo nel merito la questione, risaltano di più - ci si chiede "perché loro sì, e tutti gli altri no?" Non sono certo gli unici a vivere in un territorio di frontiera, a cavallo fra due lingue e due culture... penso ad esempio alla cultura occitana e a quella francoprovenzale, nella quale affondano alcune delle mie, di radici, e che conosco un po' meglio: per loro le tutele - nate solo negli ultimi anni - si fermano al patrimonio linguistico, certo non coinvolgono aspetti fiscali ed economici come in Trentino.

L'argomento è spinoso e molto difficile. Lo è conoscendolo, e ancor di più se lo si è a malapena intravisto. Questo libro comunque rappresenta una buona introduzione storica, e ci racconta la fine della prima guerra mondiale, vista da chi viveva nella zona dell'Alto Adige e si sentiva a tutti gli effetti tedesco, sino ad arrivare alla forzata italianizzazione nel dopoguerra, sotto un regime fascista sempre più invadente.
La Gruber fonde la narrazione della Storia con la s maiuscola con quella della sua famiglia, soprattutto tramite i diari della sua bisnonna Rosa. Alcune situazioni vengono ricostruite e romanzate, per forza di cose, ma appaiono reali e plausibili.

L'unico appunto che ti muovo, cara Lilli, è perché non hai aggiunto due striminzite paginette di epilogo nel quale ci raccontavi cosa è successo al tuo bisnonno e alle sorelle Rizzolli dopo la morte di Rosa? Soprattutto a Hella, di cui ci hai particolarmente raccontato, e di cui hai sempre lasciato intendere che fosse morta giovane. Nei ringraziamenti nomini un suo figlio. Ecco, noi lettori ci aspettavamo di saperne qualcosa in più, fossero anche state soltanto poche righe; ci hai lasciato con una "eredità incompiuta"...

domenica 20 marzo 2011

l'orsetto sfortunato


So benissimo dei seri problemi nucleari in Giappone, dei bombardamenti in corso sulla sponda opposta del Mediterraneo, del pazzo che minaccia di farcela pagare... ma la notizia che mi ha colpita di più quest'oggi è stata la morte dell'orso Knut. Eh, sarò sentimentale ;)

Un orsetto davvero sfortunato, ahimé, a partire dalle circostanze della sua nascita (nel dicembre 2006), quando la madre rifiutò lui e il fratellino, che però non riuscì a sopravvivere. Lo zoo di Berlino ne fece il suo simbolo, e sicuramente approfittò di lui per ottenere lauti guadagni extra, in quanto l'orsetto (mentre era un cucciolotto) divenne una vera e propria star planetaria. Una volta cresciuto però, cominciò ad essere un po' dimenticato.
Purtroppo anche il veterinario che lo allevò, allattandolo col biberon - Thomas Dorflein - ebbe una sorte sfortunata, in quanto morì di infarto nel settembre 2008 a soli 44 anni.
E ieri è toccato al povero Knut, davanti agli occhi increduli dei visitatori dello zoo di Berlino: ancora non si sa quale sia il motivo. Ciao, piccolo orsacchiotto sfortunato, se non altro ora avrai ritrovato il tuo papà adottivo...

martedì 28 dicembre 2010

una donna a berlino

Non conoscevo questo libro. Non ne avevo mai sentito parlare sino a quando non ne ho letto sul blog della Francy, che si riferiva all'edizione inglese. Ma ho scoperto che il libro è stato pubblicato anche in italiano (Einaudi, 2004), e sebbene al momento non sia disponibile a catalogo, sono riuscita a trovarlo abbastanza facilmente in biblioteca.
Il diario dell'anonima trentenne berlinese, steso nei giorni terribili fra il 20 aprile e il 22 giugno 1945, costituisce una delle rare testimonianze tedesche sugli ultimi drammatici mesi di guerra e sul crollo finale del nazismo. Pubblicato prima in inglese, negli Stati Uniti nel 1954 e in Inghilterra l'anno successivo, quindi tradotto in gran parte dell'Europa (nel 1957 si ebbe la traduzione italiana per Mondadori) e in Giappone, solo nel 1959 apparve in lingua originale, grazie a una piccola casa editrice svizzera. In Germania, come ricorda Enzensberger nell'introduzione scritta appositamente per questa nuova edizione italiana, il diario fu accolto con infastiditi silenzi quando non con vera e propria ostilità, tanto che l'autrice, una giovane giornalista, si oppose in seguito a ulteriori ripubblicazioni nel proprio paese, sin quando lei fosse stata in vita (l'autrice è morta nel 2001).
Le pagine del diario raccontavano infatti, senza alcun cedimento al vittimismo, il crollo improvviso di un'identità collettiva e il persistere, pur nel crollo, tanto di antichi pregiudizi quanto dei più recenti temi della propaganda nazista, primo fra tutti il sentimento antirusso.

Atroce. L'ho trovato atroce, ma nel senso che non riuscivo a staccarmi da queste pagine e ho finito di leggerle tutte in un giorno e mezzo. Un lucido e consapevole diario di due mesi di vita, di sopravvivenza a cavallo dell'occupazione di Berlino da parte dei russi vincitori. I giorni che noi italiani siamo abituati a pensare come quelli della "Liberazione", per i tedeschi sono stati vissuti diversamente. E dalle donne tedesche in particolare, anch'esse eterne vittime dei vincitori di una guerra.
Ciò che in tempo di pace viene giustamente considerato un crimine orrendo contro un'altra persona, in tempo di guerra viene quasi visto come "normale" diritto di un soldato vincitore. La donna appartenente alla popolazione vinta non è più vista come una persona ma come una cosa "di": la donna "del" nemico, la donna "del" vinto, la donna "del" perdente, e come tale trattata, come un oggetto di proprietà che adesso si può usare a proprio piacimento, vero e proprio bottino di guerra. Rispetto per un altro essere umano, kaputt!
L'autrice non si lamenta, registra appena le è possibile ciò che sta avvenendo, ma lo fa senza vittimismi, senza lamentarsi, senza sopportarlo passivamente. "Vomitare" su carta ciò che le succede serve per riuscire a lasciarselo alle spalle, per uscirne "sana" - per quanto ciò sia possibile.
Il suo livello culturale la porta anche a considerare e giudicare in maniera critica e distaccata le "relazioni" con l'altro sesso dei soldati e degli stessi ufficiali russi.
Un libro forte, che senza essere urlato né fragoroso ti dà un bel pugno nello stomaco...