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venerdì 29 settembre 2017

il referendum della catalogna


Non sono mai stata a Barcellona, nè in Catalogna. In realtà non sono mai stata nemmeno in Spagna (è fra i pochi paesi europei che non ho mai visitato). Ammetto di non conoscere bene la storia passata e i rapporti fra Spagna e Catalogna nei secoli. Però quanto sta succedendo adesso mi colpisce.

Il 1 ottobre i catalani vorrebbero tenere un referendum per decidere della propria autonomia dalla Spagna. Ma la Spagna si sta comportando come ci aspetteremmo dalla Cina: ha dispiegato le forze dell'ordine (spagnole) e l'esercito per vietare la consultazione elettorale, ha interdetto i voli aerei privati su Barcellona, ha chiesto a Google di rimuovere dai risultati del motore di ricerca le informazioni per recarsi ai possibili seggi. Ha già effettuato arresti dei principali responsabili del referendum, sequestrato schede e seggi, e minacciato di pesanti pene chi parteciperà a un eventuale voto.

Certo: un paese nella propria Costituzione non prevede il suo smembramento, cerca di garantirne sempre l'indivisibilità territoriale. Dal punto di vista del diritto è chiaro che un referendum per l'indipendenza è anticostituzionale, va oltre la legge primaria di un paese e quindi è illegale, per definizione. I suoi effetti non sarebbero riconosciuti da quel paese in cui dovesse svolgersi.

Ma è giusto, moralmente, vietare a un'area di un paese, a larga parte dei suoi cittadini, di esprimere la propria volontà? E se davvero un'ampia maggioranza volesse staccarsi dalla Spagna, dalla giurisdizione di Madrid?
Potrebbero volerlo fare per le più svariate ragioni: economiche, storiche, politiche, culturali, linguistiche; ragioni giuste o sbagliate; motivazioni intelligenti o campate in aria, egoiste o lungimiranti. Ma perché i catalani non dovrebbero avere il diritto di scegliere per sé stessi? Perché non dovrebbero poter aver la possibilità di farselo, questo benedetto referendum?

Perché quando ci riferiamo ad altre nazioni negli altri continenti riteniamo che abbiano diritto all'autodeterminazione, ad affrancarsi dalle dittature coloniali, o da confini disegnati a tavolino da altri, mentre per la Catalogna questo non è possibile? E se domani un'altra regione di un qualsiasi altro paese europeo lo volesse fare? Perché la Scozia ha potuto almeno esprimersi con un voto, e la Catalogna no?

Si potrà obiettare che la Catalogna non è sotto dittatura, ma in democrazia (anche la Scozia lo era, se è per quello), anche se ciò che sta succedendo negli ultimi giorni non ha un'apparenza molto democratica.

mercoledì 3 aprile 2013

robert capa

Robert Capa. Retrospettiva
Palazzo Reale, Torino
(15 marzo - 14 luglio 2013)
Contadino siciliano indica a un ufficiale americano la direzione presa dai tedeschi, 1943

Raid aereo sopra Barcellona, 1939

Morte di un miliziano lealista, Spagna, inizio settembre 1936

Tè in un rifugio antiaereo, Londra, 1941

Uomo e gatto in attesa dei raid aerei, Londra, 1941

Soldati americani feriti in un ospedale di fortuna nella chiesa di Maiori, Italia, 1943

Ufficiale tedesco perquisito da un soldato americano, Francia, 1944

Donna con testa rasata per aver avuto un bambino con un soldato tedesco, Chartres, agosto 1944

Uno degli ultimi soldati a morire colpito da un cecchino, Lipsia, maggio 1945

Una donna porta i suoi bagagli accompagnata da un bambino, Haifa, Israele, 1949-50

L'esposizione racconta il percorso umano e artistico di Capa attraverso 97 fotografie in bianco e nero, raggruppate in undici sezioni: Leon Trotsky (1932), France (1936-1939), Spain (1936-1939), China (1938), Britain & Italy (1941-1944), France (1944), Germany (1945), Eastern Europe (1947-1949), Israel (1948-1950), Indochina (1954), Friends.

Articolo sulla mostra tratto da "La Stampa":

Robert Capa in mostra a Torino, la guerra con la Leica in tasca

di Rocco Moliterni
Si può partire da quell’ultima immagine che diventa quasi simbolica: come nella scena finale di un film due motociclisti sembrano andarsene tra la polvere, in Vietnam, sulla strada che porta da Nam Dinh a Tahai Binh. È il 25 maggio del 1954, di lì a poco su quella stessa strada una mina farà saltare in aria, a soli 40 anni, l’autore di quello scatto: Robert Capa, uno dei più grandi fotografi del Novecento, fondatore tra l’altro, con Henri Cartier-Bresson, dell’Agenzia Magnum.

A rilanciare l’epopea di Capa, nel centenario della nascita, è da oggi a Palazzo Reale di Torino, la retrospettiva curata da Lorenza Bravetta, responsabile Europa della Magnum, e organizzata da Silvana editoriale in collaborazione con la stessa Magnum e con il patrocinio del Comune di Torino. La mostra ripercorre la breve e intensa carriera di Capa, proponendo 97 immagini in undici sezioni. Si parte così con le celebri foto di Trotsky, realizzate da Capa nel 1932 quando all’anagrafe faceva ancora Endre Ernö Friedmann ed era un giovane ungherese riparato a Berlino. Qui si arrangiava facendo l’assistente in camera oscura all’agenzia Dephot. Fu il suo primo grande scoop: il rivoluzionario sovietico doveva parlare allo stadio di Copenhagen, ma non voleva essere fotografato. Così i fotoreporter di tutto il mondo arrivati nella capitale danese con le loro voluminose apparecchiature vennero bloccati all’ingresso. «Io - racconterà anni dopo Capa - portavo in tasca una piccola Leica, quindi a nessuno venne in mente che fossi un fotografo. Quando arrivarono gli operai che dovevano portare lunghi tubi di acciaio nella sala, mi unii a loro e con la mia Leica, andai alla ricerca di Trotsky».

Ma l’avvento del nazismo costringe il giovane ungherese di origine ebraica a lasciare Berlino per approdare a Parigi. Qui si innamora non solo della città ma anche di Gerda Taro, una fotografa tedesca che prima gli consiglia di cambiare il nome in Capa e poi lo aiuta vendere le foto nelle agenzie parigine. Di quel periodo in mostra vediamo Leon Blum e i sostenitori del Fronte Popolare, leader sindacali sul palco e bambini con il pugno chiuso. Poi verrà la guerra di Spagna e qui Capa perderà la sua compagna Gerda Tara in un incidente sotto un attacco aereo tedesco, ma nel settembre del 1936 realizzerà il Miliziano che muore, una fotografia che diventa ben presto non solo l’icona della guerra di Spagna ma una delle più famose immagini del Novecento.
La rivediamo accanto a foto di gente che corre a Bilbao verso i rifugi e di profughi repubblicani nei campi francesi quando ormai la Repubblica è sconfitta, nel 1939. Nel frattempo Capa è riuscito anche ad andare in Cina, realizzando un reportage in cui ci sono tanto Chang Kai-shek quanto la moglie, spettacoli di propaganda e un’immagine di bambini che giocano nella neve con i loro cappotti lunghi che oggi ci colpisce perché sembra anticipare i pretini di Giacomelli.

Poi sarà la volta, tra il 1941 e il 1944, dei grandi reportage della Gran Bretagna sotto i bombardamenti e dell’Italia dove sono appena sbarcati gli americani:  Capa fotografa il contadino siciliano che indica la strada a un marine americano, le donne di Cassino con le ceste in testa, e (bellissima) i soldati americani feriti che fumano in una chiesa di Maiori trasformata in ospedale da campo. Poi il 6 giugno del 1944 Capa, cui non manca certo il coraggio, sbarca con gli alleati a Omaha Beach in quello che passerà alla storia come il D-Day. «Le pallottole aprivano buchi nell’acqua intorno a me», scrisse. «Era molto presto e la luce era molto grigia per scattare buone fotografie, ma l’acqua e il cielo grigi rendevano di grande effetto quegli omini che si barcamenavano fra i piani surreali della squadra hitleriana anti-invasione».

Capa scatta quattro rullini da 36 foto e ritorna in Gran Bretagna perché possano essere sviluppate al più presto: «Quando - raccontava ieri alla presentazione della mostra il 94 enne John Morris, che fu amico di Capa, nonchè direttore di Magnum e che all’epoca lavorava per «Time» a Londra - arrivarono nei nostri studi li mandammo subito in camera oscura. Ma un giovane assistente preso dall’ansia sbagliò qualcosa e venne da me costernato a dirmi che tutti i rullini erano inutilizzabili. Andai a vedere, era un disastro, ma nel quarto rullino riuscimmo a salvare 11 scatti». Sono quelli, in parte mossi e sfocati, che fecero il giro del mondo e che ancora adesso sono immagini simbolo della Seconda guerra mondiale. Dalla Normandia Capa segue le truppe alleate a Parigi e racconta la liberazione della città, con il generale De Gaulle in parata e le giovani collaborazioniste dalla testa rasata. Di qui si sposta in Germania a documentare le distruzioni di Berlino (e c’è una foto che sembra quasi, non fosse per quegli uomini in bicicletta, una Beirut di Basilico). Nel dopoguerra la curiosità spinge Capa in Ucraina dove ci restituisce contadine sorridenti e famiglie che mangiano in fattorie collettive e coppie che danzano a piedi nudi.

C’è ancora il tempo di andare in Israele, anche qui bambini in campi per immigrati e donne sfollate che portano pesanti valigie sulla testa. Poi ci sarà l’Indocina e il «finale di partita». Capa non è stato però solo un fotografo di guerra, ma un uomo di grande sensibilità e ironia (come si intuisce dal ritratto che gli fa Ruth Ohkin): amava la vita, gli amici e le donne. Per cui l’ultima sezione sfodera celebri immagini di Hemingway, Picasso, Faulkner, Truman Capote e lo splendido collo di Ingrid Bergman, con cui ebbe una travolgente e sfortunata storia d’amore, iniziata con un bigliettino fatto passare sotto la porta della stanza d’hotel dell’attrice. Per sintetizzare la sua grandezza val la pena ricorrere a quanto scrisse il suo amico John Steinbeck: «Capa sapeva che non si può fotografare la guerra, perché si tratta per lo più di un’emozione: Ma lui riuscì a catturare quell’emozione scattando accanto ad essa. Era in grado di mostrare l’orrore patito da un intero popolo sul volto di un bambino». 

giovedì 10 marzo 2011

il labirinto del fauno


Visto abbastanza per caso ieri sera (grazie alla mitica Rai 4). E'una pellicola del 2006 e ovviamente ne avevo già sentito parlare, ma credevo che fosse una storia puramente fantasy. Invece è un film a cui è molto difficile assegnare un genere ben preciso: secondo me prevale maggiormente l'aspetto storico/drammatico, a cui si affiancano digressioni fantasy che hanno però una loro giustificazione. Comunque un bel film, che mi è piaciuto molto, anche se non lo consiglierei comunque agli stomaci deboli, perché ci sono alcune scene un po' splatter, e anche perché l'atmosfera complessiva sembra opprimente, cruda e priva di speranza.

Spagna 1944. Ofelia è una ragazzina dodicenne che, insieme a sua madre, raggiunge il patrigno in un casale in mezzo ai boschi. Il patrigno - un uomo molto arrogante e crudele - è capitano dell'esercito franchista, e sta portando avanti una feroce azione di rastrellamento dei partigiani che si nascondono nella zona. La bimba cerca di aiutare la madre, che sta affrontando una gravidanza difficile.
Appena arrivata, scopre nel bosco vicino al casale un vecchio e fiabesco labirinto, al centro del quale c'è un grande pozzo con una scala a chiocciola che lo discende. In fondo al pozzo, Ofelia incontra un fauno, il quale le rivela che lei è in realtà la principessa di un regno sotterraneo, e che per ritornare in quello che è il suo vero mondo dovrà superare tre prove pericolose e difficili.
Ma forse i pericoli più grandi sono quelli della realtà "vera". Al casale, infatti, vi è anche una giovane donna, Mercedes, che sta aiutando i partigiani, con la collaborazione del dottore, fornendo loro cibo e medicinali, ma col rischio costante di venire scoperta.
Il finale non lo racconto perché sarebbe un delitto: basti dire che vi si arriva in maniera abbastanza sanguinolenta, ma ciò nonostante è un epilogo che lascia spazio alla speranza di un nuovo inizio.

martedì 27 luglio 2010

l'ombra del vento


Una mattina del 1945 il proprietario di un modesto negozio di libri usati conduce il figlio undicenne, Daniel, nel cuore della città vecchia di Barcellona al Cimitero dei Libri Dimenticati, un luogo in cui migliaia di libri di cui il tempo ha cancellato il ricordo, vengono sottratti all'oblio. Qui Daniel entra in possesso del libro "maledetto" che cambierà il corso della sua vita, introducendolo in un labirinto di intrighi legati alla figura del suo autore e da tempo sepolti nell'anima oscura della città. Un romanzo in cui i bagliori di un passato inquietante si riverberano sul presente del giovane protagonista, in una Barcellona dalla duplice identità: quella ricca ed elegante degli ultimi splendori del Modernismo e quella cupa del dopoguerra.

Finalmente, per una volta, mi ritrovo d'accordo con uno degli slogan riportati sulla copertina di un libro, slogan che ogni volta cercano di "venderlo" come se si trattasse di un capolavoro o di un'opera straordinaria e stra-originale.
Il romanzo spagnolo che ha stregato i lettori di tutto il mondo.
I lettori di tutto il mondo non saprei, ma me di sicuro... Un po' per la storia, che è comunque avvincente anche se man mano che mi addentravo nella lettura son sempre arrivata a sospettare fortemente le varie agnizioni e colpi di scena diverso tempo prima che venissero enunciati nero su bianco. Ma soprattutto per le atmosfere riprodotte, per la Barcellona che mi sono immaginata nebbiosa, a tinte noir, monocromatica come nelle fotografie d'epoca di Francesc Català-Roca. Poi per lo stile della prosa di Zafon, ricca e vivida, in grado di legarmi alle pagine e costringermi ad andare avanti per vedere "cosa viene dopo". E infine per i personaggi, tratteggiati e descritti mirabilmente come se fossero reali (soprattutto Fermin Romero de Torres, la cui figura - un mix di vizi, peccati e simpatia - risalta in modo speciale).