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giovedì 9 febbraio 2017
le porte dipinte di valloria
Valloria si trova nell'entroterra di Imperia, a circa diciassette chilometri dalla costa. Ma la breve distanza che separa il villaggio dal mare si dimentica man mano che si percorre la strada e ci si arrampica fra curve tornantuose circondate da ulivi.
In uno degli ultimi tornanti prima di arrivare al paese si viene sorpresi da uno strepitoso panorama del paesello sul lato sinistro della strada, da dove si gode la vista di uno skyline di casette colorate - gialle, rosse e rosa - che si arrampicano una dietro l'altra sino a giungere alla chiesa.
E' difficile trovare un punto per fermare l'auto senza ostruire la circolazione, ma se in quel momento non c'è molto traffico fermatevi un momento e tirate giù il finestrino perché il colpo d'occhio merita davvero.
Le origini di Valloria sono molto antiche, come dimostra il suo impianto urbanistico. La vita scorre ancora in maniera tranquilla, secondo i ritmi dettati dalla natura, ai margini dei grandi flussi turistici. Vi sono distese di uliveti, silenziosi e quieti, che invitano a compiere passeggiate durante le quali si incontrano piloni e chiesupole di campagna.
Valloria deve però la sua fama recente al fatto di essere il "paese delle porte dipinte".
L'idea di dipingere le vecchie porte che si affacciano sui numerosi carrugi del piccolo abitato ha generato una notorietà che è andata ben oltre i confini locali. Circa un centinaio di artisti, ciascuno col proprio stile, una diversa tecnica, un differente tema, hanno dipinto ed interpretato altrettante porte per realizzare un vero e proprio museo aperto.
Il percorso è segnalato con vari pannelli, ed è sempre visitabile. Abbiamo letto che c'è un impianto di illuminazione che consente anche delle visite in notturna, ma su questo non posso garantire poiché noi ci siamo stati soltanto durante il giorno.
Le porte di Valloria sono diventate delle opere d'arte, e simbolicamente si aprono, inviando un messaggio di ospitalità ai visitatori.
sabato 3 dicembre 2016
dentro soffia il vento
In un avvallamento tra due montagne della Val d’Aosta, al tempo della
Grande Guerra, sorge il borgo di Saint Rhémy: un piccolo gruppo di case
affastellate le une sulle altre, in mezzo alle quali spunta uno sparuto
campanile.
Al calare della sera, da una di quelle case, con il volto opportunamente protetto dall’oscurità, qualche «anima pia» esce a volte per avventurarsi nel bosco e andare a bussare alla porta di un capanno dove vive Fiamma, una ragazza dai capelli così rossi che sembrano guizzare come lingue di fuoco in un camino.
Come faceva sua madre quand’era ancora in vita, Fiamma prepara decotti per curare ogni malanno: asma, reumatismi, cattiva digestione, insonnia, infezioni… Infusi d’erbe che, in bocca alla gente del borgo diventano «pozioni » approntate da una «strega» che ha venduto l’anima al diavolo. Così, mentre al calare delle ombre gli abitanti di Saint Rhémy compaiono furtivi alla sua porta, alla luce del sole si segnano al passaggio della ragazza ed evitano persino di guardarla negli occhi.
Il piccolo e inospitale capanno e il bosco sono perciò l’unica realtà che Fiamma conosce, l’unico luogo in cui si sente al sicuro. La solitudine, però, a volte le pesa addosso come un macigno, soprattutto da quando Raphaël Rosset se n’è andato.
Era inaspettatamente comparso un giorno al suo cospetto, Raphaël, quando era ancora un bambino sparuto, con una folta matassa di capelli biondi come il grano e una spruzzata di lentiggini sul naso a patata. Le aveva parlato normalmente, come si fa tra ragazzi ed era diventato col tempo il suo migliore e unico amico. Poi, a ventuno anni, in un giorno di sole era partito per la guerra con il sorriso stampato sul volto e la penna di corvo ben lucida sul cappello, e non era più tornato. Ora, ogni sera alla stessa ora, Fiamma si spinge al limitare del bosco, fino alla fattoria dei Rosset. Prima di scomparire inghiottita dal buio della notte, se ne sta a guardare a lungo la casa dove, in preda ai sensi di colpa per non essere andato lui in guerra, si aggira sconsolato Yann, il fratello zoppo di Raphaël… il fratello che la odia.
Ritornando su un tema caro alla letteratura di ogni tempo – l’amore che dissolve il rapporto tra una comunità e il suo capro espiatorio – Francesca Diotallevi costruisce un romanzo che sorprende per la maturità della scrittura e la solidità della trama, un’opera che annuncia un nuovo talento della narrativa italiana.
Al calare della sera, da una di quelle case, con il volto opportunamente protetto dall’oscurità, qualche «anima pia» esce a volte per avventurarsi nel bosco e andare a bussare alla porta di un capanno dove vive Fiamma, una ragazza dai capelli così rossi che sembrano guizzare come lingue di fuoco in un camino.
Come faceva sua madre quand’era ancora in vita, Fiamma prepara decotti per curare ogni malanno: asma, reumatismi, cattiva digestione, insonnia, infezioni… Infusi d’erbe che, in bocca alla gente del borgo diventano «pozioni » approntate da una «strega» che ha venduto l’anima al diavolo. Così, mentre al calare delle ombre gli abitanti di Saint Rhémy compaiono furtivi alla sua porta, alla luce del sole si segnano al passaggio della ragazza ed evitano persino di guardarla negli occhi.
Il piccolo e inospitale capanno e il bosco sono perciò l’unica realtà che Fiamma conosce, l’unico luogo in cui si sente al sicuro. La solitudine, però, a volte le pesa addosso come un macigno, soprattutto da quando Raphaël Rosset se n’è andato.
Era inaspettatamente comparso un giorno al suo cospetto, Raphaël, quando era ancora un bambino sparuto, con una folta matassa di capelli biondi come il grano e una spruzzata di lentiggini sul naso a patata. Le aveva parlato normalmente, come si fa tra ragazzi ed era diventato col tempo il suo migliore e unico amico. Poi, a ventuno anni, in un giorno di sole era partito per la guerra con il sorriso stampato sul volto e la penna di corvo ben lucida sul cappello, e non era più tornato. Ora, ogni sera alla stessa ora, Fiamma si spinge al limitare del bosco, fino alla fattoria dei Rosset. Prima di scomparire inghiottita dal buio della notte, se ne sta a guardare a lungo la casa dove, in preda ai sensi di colpa per non essere andato lui in guerra, si aggira sconsolato Yann, il fratello zoppo di Raphaël… il fratello che la odia.
Ritornando su un tema caro alla letteratura di ogni tempo – l’amore che dissolve il rapporto tra una comunità e il suo capro espiatorio – Francesca Diotallevi costruisce un romanzo che sorprende per la maturità della scrittura e la solidità della trama, un’opera che annuncia un nuovo talento della narrativa italiana.
venerdì 2 dicembre 2016
alberto angela a giovedìscienza
La Gioconda non è solo un quadro da ammirare. In realtà è un viaggio nella mente e nelle emozioni di Leonardo. È una porta che si spalanca su un luogo e su un’epoca indimenticabili: Firenze (ma anche Milano, Roma, Mantova, Urbino...) e il Rinascimento.
Sarà Monna Lisa stessa a “raccontarci” Leonardo, il genio che l’ha potuta pensare e realizzare, e che ci svelerà i segreti delle incredibili macchine e invenzioni (un palombaro, un paracadute, un robot!).
Ma che cosa sappiamo di lei? Chi è davvero questa donna misteriosa? Partendo da ogni dettaglio del quadro e ricostruendo le circostanze in cui Leonardo lo dipinse, Alberto Angela ci accompagna a scoprire che il volto della Gioconda non ha ciglia né sopracciglia, o che il segreto del paesaggio va ricercato nel nuovo tipo di prospettiva “aerea” ideato da Leonardo.
Sarà Monna Lisa stessa a “raccontarci” Leonardo, il genio che l’ha potuta pensare e realizzare, e che ci svelerà i segreti delle incredibili macchine e invenzioni (un palombaro, un paracadute, un robot!).
Ma che cosa sappiamo di lei? Chi è davvero questa donna misteriosa? Partendo da ogni dettaglio del quadro e ricostruendo le circostanze in cui Leonardo lo dipinse, Alberto Angela ci accompagna a scoprire che il volto della Gioconda non ha ciglia né sopracciglia, o che il segreto del paesaggio va ricercato nel nuovo tipo di prospettiva “aerea” ideato da Leonardo.
Ieri sera - lunedì 1 dicembre - Alberto Angela ha incontrato il pubblico torinese, nell'ambito di GiovedìScienza.
Il Teatro Colosseo è completamente pieno (1500 posti fra platea e galleria) già mezz'ora prima dell'orario previsto per l'inizio dell'incontro. Per fortuna io e la mia collega riusciamo a trovare due poltrone, anche se siamo in alto, a circa metà galleria.
Il Teatro Colosseo è completamente pieno (1500 posti fra platea e galleria) già mezz'ora prima dell'orario previsto per l'inizio dell'incontro. Per fortuna io e la mia collega riusciamo a trovare due poltrone, anche se siamo in alto, a circa metà galleria.

La conferenza comincia verso le 17.55,
con una breve introduzione di Piero Bianucci.
Nel preambolo Alberto Angela
ricorda subito come il palco del Colosseo sia stato quello dove tenne
la sua prima conferenza pubblica, sempre con Bianucci, molti anni fa.
All'epoca avere la luce dei riflettori direttamente puntata in faccia
equivaleva ad avere un senso di tranquillità, perché non si rendeva
ben conto di avere davanti a sé tutto quel pubblico. Alberto chiede
se per chi sta riprendendo via streaming l'evento è un problema se
lui si alzasse dalla poltroncina e si mettesse a camminare sul palco.
Così fa.
La Gioconda è stata una delle icone
del Novecento. Nel suo ultimo libro “Gli occhi della Gioconda” Angela
propone una delle ipotesi dello studioso Carlo Pedretti, ovvero che
la Gioconda che noi conosciamo non sia Monna Lisa bensì un'altra
donna. E grazie a questo dibattito sulla Gioconda, il libro ci permette di fare un viaggio nella mente e nell'epoca di Leonardo da Vinci.
A metà '500 il Vasari ne “Le Vite”
intendeva riassumere il Rinascimento, un'epoca già conclusa ed
irripetibile. In questo testo Vasari parla del ritratto di tale Lisa
Gherardini, commissionato a Leonardo dal marito, il mercante Mastro
Giocondo. Già potrebbe risultare strano che Leonardo facesse un
quadro per un mercante, e non per un principe o un più alto
personaggio. Ancor più strano pensare che la dama in questione
doveva avere circa 15 anni, mentre il ritratto che noi oggi
conosciamo non sembra affatto quello di una quindicenne.
Angela racconta poi che la Firenze
del '500 è una città in decadenza. Leonardo realizza la Gioconda in
questo contesto, volendo continuare la tradizione delle grandi opere.
Racconta anche dei cartoni preparatori da lui realizzati per la Battaglia di Anghiari, per i quali utilizzò la tecnica dell'encausto (si mescolavano pigmenti e cera, poi avvicinando dei bracieri caldi, la cera sgusciava fuori dai tratti, e usando un apposito panno il tutto diventava simile a marmo). Purtroppo il procedimento non funzionò bene, e il caldo dei bracieri rovinò tutta l'opera. Successivamente fu proprio Vasari a ricoprire la parete con dei nuovi affreschi. Che ne fu del lavoro di Leonardo? Venne coperto e distrutto, oppure il Vasari lo nascose con una sorta di intercapedine? Non si sa.
Racconta anche dei cartoni preparatori da lui realizzati per la Battaglia di Anghiari, per i quali utilizzò la tecnica dell'encausto (si mescolavano pigmenti e cera, poi avvicinando dei bracieri caldi, la cera sgusciava fuori dai tratti, e usando un apposito panno il tutto diventava simile a marmo). Purtroppo il procedimento non funzionò bene, e il caldo dei bracieri rovinò tutta l'opera. Successivamente fu proprio Vasari a ricoprire la parete con dei nuovi affreschi. Che ne fu del lavoro di Leonardo? Venne coperto e distrutto, oppure il Vasari lo nascose con una sorta di intercapedine? Non si sa.
Gli occhi della Gioconda colpiscono in
modo particolare, privi di ciglia e di sopracciglia, così come la
bocca, risultato di una serie di passaggi semitrasparenti che rendono
indefiniti i lineamenti. Leonardo usava una sua tecnica di sfumato,
con strati successivi sul tratto originale. Inoltre pare che avesse
una serie di taccuini su cui riportava tipologie di parti del volto,
ad esempio aveva individuato 21 tipologie di nasi diversi, ed era in
grado di disegnare i volti usando questi vari elementi anche a
distanza di tempo. Ricordiamoci di questa cosa perché tornerà utile
nelle conclusioni finali.
Leonardo fece anche approfonditi studi di fisiognomica, e dipingeva un po' come se fosse un fotografo.
Leonardo fece anche approfonditi studi di fisiognomica, e dipingeva un po' come se fosse un fotografo.
A questo punto Angela passa in rassegna
diversi quadri leonardeschi, mostrandone le slides. Sia nel “Ritratto di Ginevra de' Benci” sia nella “Dama con l'ermellino” Leonardo
dava movimento al corpo, nel ritratto: la figura era spesso
riprodotta di tre quarti.
Ci mostra poi il disegno preparatorio per il ritratto (di profilo) di Isabella d'Este, che insisteva con lui per farsi ritrarre. In realtà non è chiaro se un successivo quadro a colori sia mai stato realizzato.
Ci mostra poi il disegno preparatorio per il ritratto (di profilo) di Isabella d'Este, che insisteva con lui per farsi ritrarre. In realtà non è chiaro se un successivo quadro a colori sia mai stato realizzato.
Nella Belle Ferronière, anch'essa
conservata al Louvre, il vestito è dello stesso stile di quello
della Gioconda, con le maniche con larghi squarci da cui uscivano gli
sbuffi della camicia. Le pieghe del vestito erano un segno della
qualità dell'abito.
Angela continua mostrandoci il
celeberrimo autoritratto a sanguigna di Leonardo, conservato proprio
alla Biblioteca Reale di Torino.
Raffaello fu folgorato dalla Gioconda
quando la vide, tanto da realizzare un quadro simile, come posa ed
elementi. Copie molto simili della Gioconda, di altri autori, sono
tuttora conservate al Prado e a San Pietroburgo. E ce n'è
addirittura una, che ritrae effettivamente una ragazza giovane, che
potrebbe essere una quindicenne, con fondale del tutto diverso (e che
si trova attualmente in un caveau a Singapore).
Nel capitolo 4, “Sulle tracce di
Leonardo”, Angela ci racconta come Leonardo fosse un figlio
illegittimo. Il nonno paterno era notaio, e, contrario alla relazione
del figlio con una contadina, trafficò per farla sposare a un
contadino, e non al suo prezioso figlio. Il piccolo Leonardo visse un
po' con il nonno paterno e un po' con la madre. A un certo punto
torna il suo vero padre e a Leonardo venne impartita un'istruzione a
Firenze. Il ragazzino faceva dei bellissimi disegni, e il padre si
convinse a mandarlo a bottega dal Verrocchio (insieme a personaggi
quali Botticelli, Perugino, Ghirlandaio). Ben presto l'allievo superò
il maestro.
Una curiosità: sembra che il David della bottega del Verrocchio ritraesse Leonardo da giovane.
Una curiosità: sembra che il David della bottega del Verrocchio ritraesse Leonardo da giovane.
Anche della Vergine delle Rocce ne
esistono due versioni, fatte entrambi da Leonardo (una conservata al
Louvre e una alla National Gallery di Londra). Questo perché i frati
che l'avevano commissionata erano disposti soltanto a pagare le
spese vive dei pigmenti etc.. e non a pagarla a prezzo di mercato.
Per cui Leonardo vendette il primo quadro a chi glielo pagava di più,
e poi ne realizzò una seconda versione, senza perderci troppo tempo,
per i monaci.
Le mani della Gioconda sono mani che
parlano. Anch'esse sono sfumate, senza nervature in rilievo. Leonardo
aveva compiuto approfonditi studi di anatomia, e ne è rimasta
testimonianza nei suoi disegni.
Nel paesaggio che si intravede sullo
sfondo della Gioconda vi sono una strada, un fiume e un ponte a più
arcate. Potrebbe trattarsi del Ponte Buriano, sulla Cassia nei pressi
di Arezzo, però le strutture rocciose riprodotte non combaciano con
quel luogo, sembrano invece le gole di Prat'antico, vicino a Firenze.
Nella Gioconda è molto evidente la prospettiva aerea usata da
Leonardo: gli oggetti che stanno sullo sfondo sono sfumati, azzurrati
in distanza, proprio per evidenziare lo “spessore dell'aria” -
invece gli oggetti vicini sono in basso, colorati e nitidi.
La parte posteriore della Gioconda è
una tavola di legno, non una tela. Sulla parte davanti, ci sono
almeno mezzo milione di screpolature.
La Gioconda ha perso i suoi colori originali perché, quando si trovava nelle Collezioni Reali francesi, vennero messi vari strati di vernice. Adesso i colori sono piuttosto scuri, si sono incupiti. Qualche tempo fa, nel laboratorio di restauro di Aramengo, vicino ad Asti, la famiglia Nicola ha effettuato una pulitura digitale su un'immagine della Gioconda mostrando come doveva essere coi suoi colori originali, quando Leonardo la dipinse.
La Gioconda ha perso i suoi colori originali perché, quando si trovava nelle Collezioni Reali francesi, vennero messi vari strati di vernice. Adesso i colori sono piuttosto scuri, si sono incupiti. Qualche tempo fa, nel laboratorio di restauro di Aramengo, vicino ad Asti, la famiglia Nicola ha effettuato una pulitura digitale su un'immagine della Gioconda mostrando come doveva essere coi suoi colori originali, quando Leonardo la dipinse.
Leonardo trascorse i suoi ultimi anni
in Francia, presso la corte di Francesco I. Portò con sé pochi
quadri, fra cui il San Giovanni Battista, a cui era molto affezionato
(il modello del quadro era stato il suo allievo, nonché
amante, Salai). Prima di morire, Leonardo regalò questi suoi quadri a
Salai, e fu poi quest'ultimo a venderli alla corona francese (la Gioconda per 12mila
ducati).
E' stato in occasione del famoso furto
avvenuto nel 1911 che la Gioconda conobbe un periodo di particolare
fama. Sul finire dell'800 era comunque considerata un sex symbol per
il suo sguardo seduttivo, mentre nel '900 cominciò ad essere oggetto
di ironia e prese in giro da parte di vari artisti.
Per tirare le fila del discorso, chi è
la Gioconda esposta oggi al Louvre? Leonardo fece il quadro su
commissione di Francesco del Giocondo, come è stato detto al
principio.
Ma che fine ha fatto questo primo
quadro? Non esiste prova che sia avvenuto il pagamento. Giocondo non
vi fa alcun riferimento nel suo testamento. E nemmeno nessuno fa mai
riferimento alla Gioconda durante la vita di Leonardo.
Giuliano de Medici (uno dei figli di
Lorenzo il Magnifico) aveva un'amante che morì di parto. Giuliano
riconobbe il figlio, ed è possibile che abbia chiesto a Leonardo di
fare un ritratto della donna morta (Leonardo l'aveva conosciuta tempo
prima). Questa donna potrebbe essere quella ritratta nella tela oggi
conservata al Louvre. D'altronde vi è anche una frase del segretario
di un cardinale in visita all'anziano Leonardo presso la corte
francese: “Leonardo ci ha mostrato un ritratto di dama commissionatagli da
Giuliano”.
L'ipotesi indicata dal libro – e
sostenuta dallo studioso Pedretti – è quindi che al Louvre non ci
sarebbe Monna Lisa (la moglie di Francesco del Giocondo), bensì
Pacifica Brandani, l'amante di Giuliano de Medici (e quindi, se vogliamo, Monna Pacifica).
Alberto Angela va avanti per
oltre un'ora e mezza con la sua esposizione. Finisce verso le 19.20.
Non mi sono distratta neanche per un attimo, e l'avrei ascoltato ancora a lungo.
Non mi sono distratta neanche per un attimo, e l'avrei ascoltato ancora a lungo.
martedì 18 ottobre 2016
l'allieva: la serie tv
La serie televisiva basata sui romanzi de "L'allieva" di Alessia Gazzola non è ancora finita - mancano ancora due settimane - ma ormai io un'idea me la sono fatta. E purtroppo sono abbastanza delusa.
La serie si ispira solo ai primi tre volumi (Sindrome da cuore in sospeso, L'allieva, Un segreto non è per sempre), e non a tutti i libri finora pubblicati. Vedendo le puntate ci si accorge però che i casi di omicidio raccontati sono ovviamente di più (1 puntata lunga da due ore + altre 10 da un'ora, trasmesse accorpate), e sono stati scritti appositamente per la televisione.
La Gazzola ha supervisionato le sceneggiature, in linea teorica, ma non le ha comunque scritte lei.
Ma il problema con la serie, per quanto mi concerne, non è quello.
Che cosa non mi sta piacendo?
- Innanzitutto la protagonista principale. Alessandra Mastronardi non mi piace nel ruolo, non è davvero la "mia" Alice dei libri. Non mi piace fisicamente, non mi piacciono il viso, i capelli, il modo in cui si veste (o la vestono). Le scarpe che porta non sono quelle che indosserebbe l'Alice dei libri.
E non mi piace il suo modo di recitare, il suo sguardo perso, la sua voce e nemmeno i suoi silenzi quando si trova interpellata dalla Wally o dal Supremo.
Boccio sia l'attrice che la interpreta, sia il modo in cui hanno sceneggiato Alice Allevi. Mentre l'Alice dei libri è imbranata ma simpatica (e ti trovi a solidarizzare con lei), sto trovando quella della tv quasi odiosa, talmente viene dipinta come stordita, come se vivesse in continuazione su una nuvoletta rosa. Sembra una vispa Teresa in un istituto di medicina legale: niente di più fuori posto!
- Poi Dario Aita nel ruolo di Arthur è una roba senza senso, completamente diverso rispetto a quello dipinto nelle pagine della Gazzola. Siamo lontani anni luce, ma proprio in un'altra galassia...
Dove sono la sua britishness, il suo coraggio e il suo idealismo?
Dov'è il suo accento inglese, dov'è il suo "Elis"???
Ricordo benissimo che leggendo i primi libri, anch'io oscillavo continuamente fra team Claudio e team Arthur (solo più avanti avrei fatto una scelta), perché come Alice non riuscivo a decidere quale preferivo. Questo avveniva perché anche l'Arthur narrato dalla Gazzola era affascinante e pieno di qualità, invece qui nella serie non mi è mai passato per la mente di poterlo nemmeno considerare, questo Arthur.
Già quando uscirono le notizie sul casting, oltre un anno fa, ero delusissima per la scelta di Aita, e purtroppo non mi sono ricreduta nemmeno dopo averlo visto al lavoro. Ma evidentemente la famiglia Aita è andata per la maggiore, anche perché un altro Aita (il fratello Emanuele) interpreta il ruolo di Paolone.
- Questo è un dettaglio, ma va ad aggiungersi al resto. Anche la nonna non è lei (ovvero non è quella che mi sono sempre raffigurata mentalmente), non con quei capelli rossi e quella corporatura robusta. Per me Marzia Ubaldi rimarrà sempre la balia di Elisa di Rivombrosa; potrà fare qualsiasi ruolo, ma io continuerò a vedermela sempre con quegli abiti di scena.
- Anche l'ispettore mi trasmette un'impressione molto diversa dai libri. Sino ad ora sembra sempre che accolga i suggerimenti investigativi di Alice come se le facesse un grande favore, sfottendola anche un po'... Nei libri invece mi sembrava che fosse molto più cordiale, gentile e disponibile nei suoi confronti.
C'è qualcosa di cui invece sono soddisfatta?
- Claudio è l'unico su cui non ho obiezioni. Mi piace, lo adoro, e Lino Guanciale lo impersona come me l'ero sempre raffigurato. Un CC perfetto, a mio parere.
(Ah, sì, se non l'avevate capito: alla fine, nel corso della lettura io ho scelto il team Claudio.)
La serie si ispira solo ai primi tre volumi (Sindrome da cuore in sospeso, L'allieva, Un segreto non è per sempre), e non a tutti i libri finora pubblicati. Vedendo le puntate ci si accorge però che i casi di omicidio raccontati sono ovviamente di più (1 puntata lunga da due ore + altre 10 da un'ora, trasmesse accorpate), e sono stati scritti appositamente per la televisione.
La Gazzola ha supervisionato le sceneggiature, in linea teorica, ma non le ha comunque scritte lei.
Ma il problema con la serie, per quanto mi concerne, non è quello.
Che cosa non mi sta piacendo?
- Innanzitutto la protagonista principale. Alessandra Mastronardi non mi piace nel ruolo, non è davvero la "mia" Alice dei libri. Non mi piace fisicamente, non mi piacciono il viso, i capelli, il modo in cui si veste (o la vestono). Le scarpe che porta non sono quelle che indosserebbe l'Alice dei libri.
E non mi piace il suo modo di recitare, il suo sguardo perso, la sua voce e nemmeno i suoi silenzi quando si trova interpellata dalla Wally o dal Supremo.
Boccio sia l'attrice che la interpreta, sia il modo in cui hanno sceneggiato Alice Allevi. Mentre l'Alice dei libri è imbranata ma simpatica (e ti trovi a solidarizzare con lei), sto trovando quella della tv quasi odiosa, talmente viene dipinta come stordita, come se vivesse in continuazione su una nuvoletta rosa. Sembra una vispa Teresa in un istituto di medicina legale: niente di più fuori posto!
- Poi Dario Aita nel ruolo di Arthur è una roba senza senso, completamente diverso rispetto a quello dipinto nelle pagine della Gazzola. Siamo lontani anni luce, ma proprio in un'altra galassia...
Dove sono la sua britishness, il suo coraggio e il suo idealismo?
Dov'è il suo accento inglese, dov'è il suo "Elis"???
Ricordo benissimo che leggendo i primi libri, anch'io oscillavo continuamente fra team Claudio e team Arthur (solo più avanti avrei fatto una scelta), perché come Alice non riuscivo a decidere quale preferivo. Questo avveniva perché anche l'Arthur narrato dalla Gazzola era affascinante e pieno di qualità, invece qui nella serie non mi è mai passato per la mente di poterlo nemmeno considerare, questo Arthur.
Già quando uscirono le notizie sul casting, oltre un anno fa, ero delusissima per la scelta di Aita, e purtroppo non mi sono ricreduta nemmeno dopo averlo visto al lavoro. Ma evidentemente la famiglia Aita è andata per la maggiore, anche perché un altro Aita (il fratello Emanuele) interpreta il ruolo di Paolone.
- Questo è un dettaglio, ma va ad aggiungersi al resto. Anche la nonna non è lei (ovvero non è quella che mi sono sempre raffigurata mentalmente), non con quei capelli rossi e quella corporatura robusta. Per me Marzia Ubaldi rimarrà sempre la balia di Elisa di Rivombrosa; potrà fare qualsiasi ruolo, ma io continuerò a vedermela sempre con quegli abiti di scena.
- Anche l'ispettore mi trasmette un'impressione molto diversa dai libri. Sino ad ora sembra sempre che accolga i suggerimenti investigativi di Alice come se le facesse un grande favore, sfottendola anche un po'... Nei libri invece mi sembrava che fosse molto più cordiale, gentile e disponibile nei suoi confronti.
C'è qualcosa di cui invece sono soddisfatta?
- Claudio è l'unico su cui non ho obiezioni. Mi piace, lo adoro, e Lino Guanciale lo impersona come me l'ero sempre raffigurato. Un CC perfetto, a mio parere.
(Ah, sì, se non l'avevate capito: alla fine, nel corso della lettura io ho scelto il team Claudio.)
martedì 30 agosto 2016
la festa della segale in valle gesso
Ogni anno, la prima domenica successiva al Ferragosto, a Sant'Anna di Valdieri (CN) si tiene la festa della segale.
Il paesino si trova in Valle Gesso, una vallata incuneata all'estremo sud-ovest del Piemonte, fra il Cuneese e la Costa Azzurra. Il territorio è compreso nel Parco naturale delle Alpi Marittime, che oltre frontiera diventa il parco francese del Mercantour.
Nel corso dell'Ottocento queste zone affascinarono moltissimo il re Vittorio Emanuele I di Savoia, che le fece riserva reale di caccia, e vi costruì residenze per soggiorni più o meno prolungati. Anche i suoi successori frequentarono volentieri questi luoghi, e la loro presenza lasciò un'impronta profonda sul territorio e nella memoria popolare degli abitanti. Grazie alla presenza della riserva reale, fu garantita la sopravvivenza di camosci e di stambecchi, al pari di quanto successe nel parco del Gran Paradiso.
In passato in Valle Gesso si coltivava la segale, un cereale rustico e resistente al clima severo delle montagne, che era alla base di una vera e propria "civiltà della segale". Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, per la valle la segale significò non soltanto poter avere pane oppure paglia per gli animali, ma anche disporre di un ottimo materiale, isolante e resistente, per costruire i tetti. Quindi un elemento importantissimo e indispensabile sia per l'alimentazione, sia per l'uso comune nella vita quotidiana.
In mancanza d'altro, si cercava di sfruttare al meglio ciò che si aveva, e la segale era una delle cose più facilmente recuperabili.
Esiste un proverbio bretone che recita così: "faute de froment les alouettes font leur nid dans le seigle", vale a dire che in mancanza di grano le allodole fanno il loro nido nella segale, cioè si adattano come meglio possono.
In montagna la segale arrivava a maturazione solo a fine luglio, principio di agosto, e la battitura avveniva nei cortili, con la partecipazione dell'intera popolazione, accompagnata da una festa occitana con musiche e danze. Si trattava di un momento fondamentale, di forte aggregazione sociale, retaggio di antichi riti agresti di fertilità.
La festa della Segale vuole rievocare proprio quel momento di festa del passato. Gli eventi vanno avanti nell'intero fine settimana, anche se noi abbiamo assistito soltanto alle manifestazioni della domenica. Lungo una delle due vie principali del paese c'è un mercatino di prodotti enogastronomici e artigianali tipici del luogo, dove i prodotti da forno la fanno da padrone (e non soltanto quelli fatti con la farina di segale...), accanto a miele, aglio, lavande e peperoni. All'ingresso del paese i volontari in costume d'epoca mettono in scena la rievocazione della battitura della segale con un particolare attrezzo chiamato "cavalia", e mostrano ai visitatori come viene fatto il pane (che si può anche acquistare). Immancabile come in ogni sagra di paese è poi il pranzo organizzato dalla Pro Loco a base di polenta, salsiccia e un bicchiere di vino rosso.
Nel pomeriggio c'è una breve sfilata in costume d'epoca, con un carretto e tanti bambini che imbracciano fiori e fascine di segale. Nel corteo sfila anche uno strano personaggio con la faccia colorata di nero e un costume di corda di paglia, una coda e un cappellone di treccia di segale: si tratta della maschera dell’Orso di Segale, che lungo il percorso tenta di spaventare i bambini e importunare (bonariamente) le persone. Le origini di questa maschera carnevalesca si perdono nella notte dei tempi; probabilmente l'Orso era metafora della natura che si risvegliava in primavera, oppure era simbolo dell'uomo selvatico.
A fine pomeriggio, per chiudere la festa, si tiene un concerto di musiche occitane, accompagnato da balli. Quest'anno si è esibito il gruppo dei Lou Tapage, un gruppo folk rock che canta anche in occitano e francese. Me ne aveva già lungamente parlato un'amica che li conosce e li segue da tempo, e ho trovato la loro musica davvero travolgente.
Nel corso dell'Ottocento queste zone affascinarono moltissimo il re Vittorio Emanuele I di Savoia, che le fece riserva reale di caccia, e vi costruì residenze per soggiorni più o meno prolungati. Anche i suoi successori frequentarono volentieri questi luoghi, e la loro presenza lasciò un'impronta profonda sul territorio e nella memoria popolare degli abitanti. Grazie alla presenza della riserva reale, fu garantita la sopravvivenza di camosci e di stambecchi, al pari di quanto successe nel parco del Gran Paradiso.
In passato in Valle Gesso si coltivava la segale, un cereale rustico e resistente al clima severo delle montagne, che era alla base di una vera e propria "civiltà della segale". Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, per la valle la segale significò non soltanto poter avere pane oppure paglia per gli animali, ma anche disporre di un ottimo materiale, isolante e resistente, per costruire i tetti. Quindi un elemento importantissimo e indispensabile sia per l'alimentazione, sia per l'uso comune nella vita quotidiana.
In mancanza d'altro, si cercava di sfruttare al meglio ciò che si aveva, e la segale era una delle cose più facilmente recuperabili.
Esiste un proverbio bretone che recita così: "faute de froment les alouettes font leur nid dans le seigle", vale a dire che in mancanza di grano le allodole fanno il loro nido nella segale, cioè si adattano come meglio possono.
In montagna la segale arrivava a maturazione solo a fine luglio, principio di agosto, e la battitura avveniva nei cortili, con la partecipazione dell'intera popolazione, accompagnata da una festa occitana con musiche e danze. Si trattava di un momento fondamentale, di forte aggregazione sociale, retaggio di antichi riti agresti di fertilità.
La festa della Segale vuole rievocare proprio quel momento di festa del passato. Gli eventi vanno avanti nell'intero fine settimana, anche se noi abbiamo assistito soltanto alle manifestazioni della domenica. Lungo una delle due vie principali del paese c'è un mercatino di prodotti enogastronomici e artigianali tipici del luogo, dove i prodotti da forno la fanno da padrone (e non soltanto quelli fatti con la farina di segale...), accanto a miele, aglio, lavande e peperoni. All'ingresso del paese i volontari in costume d'epoca mettono in scena la rievocazione della battitura della segale con un particolare attrezzo chiamato "cavalia", e mostrano ai visitatori come viene fatto il pane (che si può anche acquistare). Immancabile come in ogni sagra di paese è poi il pranzo organizzato dalla Pro Loco a base di polenta, salsiccia e un bicchiere di vino rosso.
Nel pomeriggio c'è una breve sfilata in costume d'epoca, con un carretto e tanti bambini che imbracciano fiori e fascine di segale. Nel corteo sfila anche uno strano personaggio con la faccia colorata di nero e un costume di corda di paglia, una coda e un cappellone di treccia di segale: si tratta della maschera dell’Orso di Segale, che lungo il percorso tenta di spaventare i bambini e importunare (bonariamente) le persone. Le origini di questa maschera carnevalesca si perdono nella notte dei tempi; probabilmente l'Orso era metafora della natura che si risvegliava in primavera, oppure era simbolo dell'uomo selvatico.
A fine pomeriggio, per chiudere la festa, si tiene un concerto di musiche occitane, accompagnato da balli. Quest'anno si è esibito il gruppo dei Lou Tapage, un gruppo folk rock che canta anche in occitano e francese. Me ne aveva già lungamente parlato un'amica che li conosce e li segue da tempo, e ho trovato la loro musica davvero travolgente.
sabato 6 agosto 2016
non è la fine del mondo
Alessia Gazzola, Non è la fine del mondo ovvero La tenace stagista ovvero Una favola d'oggi
Emma De Tessent. Eterna stagista, trentenne, carina, di buona famiglia, brillante negli studi, salda nei valori (quasi sempre).
Residenza: Roma. Per il momento – ma solo per il momento – insieme alla madre.
Sogni proibiti: il villino con il glicine dove si rifugia sempre quando si sente giù. Un uomo che probabilmente esiste solo nei romanzi regency di cui va matta. Un contratto a tempo indeterminato. A salvarla dallo stereotipo della zitella, solo l’allergia ai gatti.
Il giorno in cui la società di produzione cinematografica per cui lavora non le rinnova il contratto, Emma si sente davvero come una delle eroine romantiche dei suoi romanzi: sola, a lottare contro la sorte avversa e la fine del mondo.
Avvilita e depressa, dopo molti colloqui fallimentari trova rifugio in un negozio di vestiti per bambini, dove finisce per essere presa come assistente. E così tutto cambia.
Ma proprio quando si convince che la tempesta si sia allontanata, il passato torna a bussare alla sua porta: il mondo del cinema rivuole lei, la tenace stagista.
Deve tornare a inseguire il suo sogno oppure restare dov’è, in quel piccolo paradiso di tulle e colori pastello? E perché il famoso scrittore che aveva a lungo cercato di convincere a cederle i diritti di trasposizione cinematografica per il suo romanzo si è infine deciso a farlo? E cosa vuole da lei quell’affascinante produttore che per qualche ragione continua a ronzare intorno al negozio dove lavora?
La trama del libro è tutta qua, e parte da una situazione comunissima al giorno d'oggi: un lavoro e un'esistenza precaria. Ma lungi dall'avere toni drammatici, i romanzi della Gazzola sono intelligenti, deliziosi e sbarazzini.
Dopo la serie dedicata ad Alice Allevi, questo è il primo "esperimento" con cui la Gazzola si cimenta con tematiche e un personaggio diversi, più vicine all'ironia e alla commedia - d'altronde aveva già espresso questo suo desiderio in un'intervista dell'anno scorso.
Emma mi è piaciuta, così come tutte le figure di contorno, delineate intorno a lei: sia il suo nucleo familiare, sia la signora del negozio di vestiti per bambini, Osvaldo incluso. Ben tratteggiati, con soave delicatezza.
Forse avrei preferito un finale più preciso e "concluso", ma facciamo finta che, anche se l'autrice non ce l'ha detto esplicitamente, ci sia una vera relazione a distanza tra Pietro ed Emma, che magari si potrà trasformare a breve in qualcosa di più "vicino". Sulla falsariga di un romanzo regency, ci immaginiamo che ci sia per forza un lieto fine classico.
Emma De Tessent. Eterna stagista, trentenne, carina, di buona famiglia, brillante negli studi, salda nei valori (quasi sempre).
Residenza: Roma. Per il momento – ma solo per il momento – insieme alla madre.
Sogni proibiti: il villino con il glicine dove si rifugia sempre quando si sente giù. Un uomo che probabilmente esiste solo nei romanzi regency di cui va matta. Un contratto a tempo indeterminato. A salvarla dallo stereotipo della zitella, solo l’allergia ai gatti.
Il giorno in cui la società di produzione cinematografica per cui lavora non le rinnova il contratto, Emma si sente davvero come una delle eroine romantiche dei suoi romanzi: sola, a lottare contro la sorte avversa e la fine del mondo.
Avvilita e depressa, dopo molti colloqui fallimentari trova rifugio in un negozio di vestiti per bambini, dove finisce per essere presa come assistente. E così tutto cambia.
Ma proprio quando si convince che la tempesta si sia allontanata, il passato torna a bussare alla sua porta: il mondo del cinema rivuole lei, la tenace stagista.
Deve tornare a inseguire il suo sogno oppure restare dov’è, in quel piccolo paradiso di tulle e colori pastello? E perché il famoso scrittore che aveva a lungo cercato di convincere a cederle i diritti di trasposizione cinematografica per il suo romanzo si è infine deciso a farlo? E cosa vuole da lei quell’affascinante produttore che per qualche ragione continua a ronzare intorno al negozio dove lavora?
La trama del libro è tutta qua, e parte da una situazione comunissima al giorno d'oggi: un lavoro e un'esistenza precaria. Ma lungi dall'avere toni drammatici, i romanzi della Gazzola sono intelligenti, deliziosi e sbarazzini.
Dopo la serie dedicata ad Alice Allevi, questo è il primo "esperimento" con cui la Gazzola si cimenta con tematiche e un personaggio diversi, più vicine all'ironia e alla commedia - d'altronde aveva già espresso questo suo desiderio in un'intervista dell'anno scorso.
Emma mi è piaciuta, così come tutte le figure di contorno, delineate intorno a lei: sia il suo nucleo familiare, sia la signora del negozio di vestiti per bambini, Osvaldo incluso. Ben tratteggiati, con soave delicatezza.
Forse avrei preferito un finale più preciso e "concluso", ma facciamo finta che, anche se l'autrice non ce l'ha detto esplicitamente, ci sia una vera relazione a distanza tra Pietro ed Emma, che magari si potrà trasformare a breve in qualcosa di più "vicino". Sulla falsariga di un romanzo regency, ci immaginiamo che ci sia per forza un lieto fine classico.
giovedì 12 maggio 2016
il principato di seborga
In Liguria, sulle alture dell'immediato entroterra di Bordighera si trova il paese di Seborga, famoso in quanto sostiene di essere un principato indipendente, autonomo rispetto alla Repubblica Italiana.
Però l'Italia non lo riconosce, e di fatto nel paese vi è un normalissimo municipio retto da un sindaco come dappertutto.
La motivazione ufficiale della (presunta) autonomia si perde nei meandri storici, e nella burocrazia dei tempi che furono. In buona sostanza, il principato venne venduto nel 1729 a Vittorio Amedeo II di Savoia, ma come patrimonio personale del re (pare che fu pagato coi fondi personali del sovrano, e non con quelli della Corona) e quindi non facente parte del Regno di Sardegna. Inoltre si sostiene che l'atto di vendita riguardasse soltanto il possesso dei territori di Seborga, e non la sovranità sul luogo. Ed infine pare che l'atto di vendita non venne mai registrato.
Di conseguenza, gli abitanti di Seborga sostengono che il loro paese non fece mai parte del Regno di Sardegna, per cui l'annessione al Regno d'Italia, prima, e alla Repubblica Italiana, dopo, avvennero in maniera unilaterale da parte italiana, senza il loro accordo, e quindi il tutto risulterebbe non valido.
Ai nostri giorni, la notorietà del paesello si traduce soprattutto in servizi televisivi o in articoli sulle riviste di viaggio.
Il paesello (pardon, principato) ha una forma di governo retta da un Principe (una carica che immaginavo ereditaria, ma che invece ho scoperto essere elettiva!), da un Consiglio dei Priori e da un Consiglio della Corona. Il sito ufficiale del Principato racconta che viene battuta moneta (il "luigino") e vengono addirittura stampati dei francobolli.
Tutto molto folkoristico... ancor di più se pensate che un paio di settimane prima che mi ci recassi, su alcuni giornali era comparsa la notizia di un "colpo di stato" a Seborga: in pratica un francese si sarebbe autoproclamato lui Principe al posto di quello attualmente in carica. Manovre di palazzo che sembravano non far sfigurare Seborga rispetto al più blasonato Principato di Monaco, che si trova a una sola trentina di km di distanza.
Con tutte queste doverose premesse, ero pronta a godermi la visita "stando al gioco", nel senso che mi aspettavo una specie di pittoresca mini-Seborgaland con varie trovate acchiappa-turisti, anche un po' kitsch. Me le aspettavo proprio: ci contavo.
Invece, la tappa a Seborga è stata piuttosto deludente. In un pomeriggio di un sabato primaverile c'erano in giro pochissimi visitatori, ma soprattutto il paese non offriva nulla in più - né di diverso - rispetto agli altri borghi dell'entroterra della zona. Degli unici due bar/trattorie che abbiamo visto soltanto uno era aperto (e dentro non c'era anima viva).
Nella piazzetta del paese c'era un solo negozietto che vendeva pasta, olio, miele, marmellate, amaretti e qualche altra golosità.
L'altra vetrina - ahimé polverosa - che esponeva souvenir era chiusa, e abbiamo dovuto aspettare che aprisse a metà pomeriggio; ma potevamo anche risparmiarci l'attesa, poiché a parte i famosi francobolli e i "luigini", tutto il resto non era strettamente legato a Seborga (vendeva infatti paccottiglia di stampo medievale e merchandising del Signore degli Anelli: robe che si possono trovare anche vicino a casa, senza fare tutti quei chilometri).
Abbiamo visitato la piccola chiesa del paese e il caso ha poi voluto che, all'uscita, fossimo sorpresi da diverse persone vestite con una tunica di foggia templare. Devo confessare che il mio primo pensiero è stato: ma guarda, ecco il gruppo folkloristico locale che ci dà il benvenuto... ma allora ci tengono, a far bella figura coi turisti! In realtà abbiamo poi capito subito che anche questi personaggi erano turisti esattamente come noi: si trattava infatti di un gruppo francese gemellato con quello locale.
In definitiva, se vi trovate a passare da quelle parti potete anche farci un salto, a Seborga. Chissà, magari durante la stagione estiva ci troverete un po' più di movimento. Magari la Pro loco (anzi, come direbbero loro, il Ministero del Turismo) organizza qualcosa di originale.
Ma non vi consiglio di andarci apposta. Per me è stata un po' una delusione.
lunedì 21 marzo 2016
l'abbazia della novalesa
L'abbazia della Novalesa si trova in una bellissima posizione nella conca naturale della Val Cenischia, una ramificazione della Valle di Susa che porta al colle del Moncenisio, importante punto di passaggio obbligato fra Italia e Francia nei secoli passati.
L'abbazia venne fondata nel 726, in una posizione strategica, su una delle rotte principali dei pellegrini che dalla Francia e dall'Inghilterra si recavano in Italia. Questa data fa rientrare la Novalesa fra i monasteri più antichi d'Europa. Anche l'imperatore Carlo Magno vi passò e vi fece tappa.
L'attività dei monaci benedettini era fondamentale per dare assistenza ai viandanti e ai pellegrini in transito, e al tempo stesso serviva per trasmettere cultura, poiché la comunità dei monaci trascriveva codici. Ai tempi infatti, la biblioteca della Novalesa era una fra le più ricche d'Europa (citata anche da Eco ne "Il nome della rosa"). Questi primi secoli di vita furono i più fiorenti per l'abbazia. Purtroppo intorno all'anno Mille la Novalesa venne gravemente saccheggiata dai Saraceni, che la misero a ferro e fuoco. I monaci fuggirono per salvarsi, e anche se successivamente vi fecero ritorno, l'abbazia nei secoli successivi non tornò più agli antichi splendori.
A metà dell'Ottocento la legge Siccardi abolì tutti i monasteri: da allora e per oltre un secolo l'edificio dell'abbazia divenne prima un albergo, poi la dependance estiva di un collegio torinese.
Nel 1972 la Provincia di Torino acquistò il complesso, lo restaurò e lo affidò a una nuova comunità di monaci benedettini provenienti dal Veneto. Da allora rivivono le atmosfere di spiritualità e lavoro tipiche dei monaci. Oggi nell'abbazia ha sede un importante centro di restauro di libri antichi, e negli ultimi anni è stato allestito anche un museo archeologico.
Il complesso dell'abbazia è composto dalla chiesa principale, un chiostro e altri locali collegati, e da quattro piccole e semplici cappelle nei terreni circostanti. Uno degli aspetti che sorprendono di più i visitatori (sì, perché il posto si può visitare: ci sono anche visite guidate che sono quelle che consiglio) è il ciclo di affreschi che si trovano ormai soltanto nella cappella di Sant'Eldrado. Sono stati fatti circa mille anni fa, ma sono ancora oggi in buonissimo stato di conservazione, e dotati di una brillantezza di colori incredibile, data la loro età.
Io conservo un particolare ricordo infantile legato a un'altra cappella, quella di San Salvatore, più spoglia e spartana, perché quando ero piccola, durante l'estate andavo spesso lì coi miei alla messa della domenica pomeriggio: era forse l'unico posto che avevo visto (fino ad allora) dove usavano l'incenso durante la liturgia, e visto che l'ambiente era molto piccolo, l'odore pervadeva intensamente tutto lo spazio.
Da allora, e ancora oggi, io associo sempre il profumo dell'incenso all'immagine di quella cappella medievale, dagli spogli e spessi muri di pietra.
L'abbazia venne fondata nel 726, in una posizione strategica, su una delle rotte principali dei pellegrini che dalla Francia e dall'Inghilterra si recavano in Italia. Questa data fa rientrare la Novalesa fra i monasteri più antichi d'Europa. Anche l'imperatore Carlo Magno vi passò e vi fece tappa.
L'attività dei monaci benedettini era fondamentale per dare assistenza ai viandanti e ai pellegrini in transito, e al tempo stesso serviva per trasmettere cultura, poiché la comunità dei monaci trascriveva codici. Ai tempi infatti, la biblioteca della Novalesa era una fra le più ricche d'Europa (citata anche da Eco ne "Il nome della rosa"). Questi primi secoli di vita furono i più fiorenti per l'abbazia. Purtroppo intorno all'anno Mille la Novalesa venne gravemente saccheggiata dai Saraceni, che la misero a ferro e fuoco. I monaci fuggirono per salvarsi, e anche se successivamente vi fecero ritorno, l'abbazia nei secoli successivi non tornò più agli antichi splendori.
A metà dell'Ottocento la legge Siccardi abolì tutti i monasteri: da allora e per oltre un secolo l'edificio dell'abbazia divenne prima un albergo, poi la dependance estiva di un collegio torinese.
Nel 1972 la Provincia di Torino acquistò il complesso, lo restaurò e lo affidò a una nuova comunità di monaci benedettini provenienti dal Veneto. Da allora rivivono le atmosfere di spiritualità e lavoro tipiche dei monaci. Oggi nell'abbazia ha sede un importante centro di restauro di libri antichi, e negli ultimi anni è stato allestito anche un museo archeologico.
Il complesso dell'abbazia è composto dalla chiesa principale, un chiostro e altri locali collegati, e da quattro piccole e semplici cappelle nei terreni circostanti. Uno degli aspetti che sorprendono di più i visitatori (sì, perché il posto si può visitare: ci sono anche visite guidate che sono quelle che consiglio) è il ciclo di affreschi che si trovano ormai soltanto nella cappella di Sant'Eldrado. Sono stati fatti circa mille anni fa, ma sono ancora oggi in buonissimo stato di conservazione, e dotati di una brillantezza di colori incredibile, data la loro età.
Io conservo un particolare ricordo infantile legato a un'altra cappella, quella di San Salvatore, più spoglia e spartana, perché quando ero piccola, durante l'estate andavo spesso lì coi miei alla messa della domenica pomeriggio: era forse l'unico posto che avevo visto (fino ad allora) dove usavano l'incenso durante la liturgia, e visto che l'ambiente era molto piccolo, l'odore pervadeva intensamente tutto lo spazio.
Da allora, e ancora oggi, io associo sempre il profumo dell'incenso all'immagine di quella cappella medievale, dagli spogli e spessi muri di pietra.
mercoledì 24 febbraio 2016
una giornata petalosa
Quest'oggi i social italiani sono stati letteralmente invasi dalla petalosità di una nuova parola.
Quando ho acceso il computer verso le 8:30 ho casualmente notato che un'amica aveva messo il "mi piace" su Facebook a un post fotografico, che commentava un quadro e faceva uso di questa parola. L'ho notato, ma non ci ho fatto caso più di tanto. Ma quando dopo mezzora sono incappata in un altro post, di tutt'altra tipologia, e stavolta corredato da fotografie della lettera, ho capito che non ce ne saremmo più liberati, almeno per un po'. E sono stata al gioco.
La storia è presto raccontata, così come ce l'hanno proposta. Qualche settimana fa, un alunno di una scuola elementare in provincia di Ferrara, durante un compito ha scritto di un fiore che era "petaloso". La maestra gliel'ha giustamente indicato come errore, perché la parola non esiste, ma gli ha detto che comunque si trattava di un "errore bello", e ha suggerito al bambino di inviare la segnalazione all'Accademia della Crusca.
Pare che il bambino l'abbia fatto, e che l'Accademia gli abbia risposto, evidenziando come la parola sia in potenziale ben formata, ma che, affinché possa essere inserita in un dizionario, debba entrare in circolo ed essere usata dalle persone.
La storia è arrivata a un pubblico più ampio e oggi - apriti cielo! - credo che "petaloso" sia stata la parola più utilizzata sui social, postatissima su Facebook nonché su Twitter, dove già in mattinata l'hashtag corrispondente era già fra i più ricorrenti in Italia. Istituzioni ed enti fra i più insospettabili l'hanno usata.
E anche l'Accademia della Crusca ha monitorato l'hashtag, perlomeno su Twitter. Mi sono scompisciata dal ridere nel vedere il reply che hanno fatto al tweet della Ladurée chiedendo una cassa di macarons.
L'ironia oggi non gli è mancata.
Non sono mancate le voci di dissenso, o di chi era infastidito da tutto 'sto baillamme social.
Io l'ho trovata una cosa simpatica. La storia, per quanto sia vera oppure inventata, mi è parsa dolce e carina. Senza dubbio trovo più pregnante una parola nata in questa maniera, rispetto a tante inventate da giornalisti che decidono di usarle nei loro articoli (e che soltanto per il fatto di essere messe nero su bianco in quelle sedi vengono considerate degne di entrare in un vocabolario).
La storia è presto raccontata, così come ce l'hanno proposta. Qualche settimana fa, un alunno di una scuola elementare in provincia di Ferrara, durante un compito ha scritto di un fiore che era "petaloso". La maestra gliel'ha giustamente indicato come errore, perché la parola non esiste, ma gli ha detto che comunque si trattava di un "errore bello", e ha suggerito al bambino di inviare la segnalazione all'Accademia della Crusca.
Pare che il bambino l'abbia fatto, e che l'Accademia gli abbia risposto, evidenziando come la parola sia in potenziale ben formata, ma che, affinché possa essere inserita in un dizionario, debba entrare in circolo ed essere usata dalle persone.
La storia è arrivata a un pubblico più ampio e oggi - apriti cielo! - credo che "petaloso" sia stata la parola più utilizzata sui social, postatissima su Facebook nonché su Twitter, dove già in mattinata l'hashtag corrispondente era già fra i più ricorrenti in Italia. Istituzioni ed enti fra i più insospettabili l'hanno usata.
E anche l'Accademia della Crusca ha monitorato l'hashtag, perlomeno su Twitter. Mi sono scompisciata dal ridere nel vedere il reply che hanno fatto al tweet della Ladurée chiedendo una cassa di macarons.
L'ironia oggi non gli è mancata.
Non sono mancate le voci di dissenso, o di chi era infastidito da tutto 'sto baillamme social.
Io l'ho trovata una cosa simpatica. La storia, per quanto sia vera oppure inventata, mi è parsa dolce e carina. Senza dubbio trovo più pregnante una parola nata in questa maniera, rispetto a tante inventate da giornalisti che decidono di usarle nei loro articoli (e che soltanto per il fatto di essere messe nero su bianco in quelle sedi vengono considerate degne di entrare in un vocabolario).
giovedì 3 dicembre 2015
luci d'artista
Si possono coniugare la tradizione delle luminarie natalizie e l'arte contemporanea? La risposta è sì, e a Torino lo fanno da ormai quasi 20 anni, nel periodo che precede il Natale.
La città di Torino ha dato un'etichetta altisonante alle classiche illuminazioni natalizie, chiamandole "Luci d'Artista". In effetti le diverse installazioni realizzate con la luce sono state ideate e progettate da vari artisti contemporanei, italiani e stranieri, anche di fama, quindi possono tranquillamente essere etichettate come "opere d'arte".
![]() |
Regno dei fiori: nido cosmico di tutte le anime, di Nicola De Maria |
La cosa intelligente delle Luci d'Artista torinesi è che vengono riciclate e re-inventate ogni anno. Di solito le vie e le piazze coinvolte nella manifestazione sono sempre le stesse, quasi tutte in zona centrale, ma di anno in anno le luci vengono ricollocate in una via differente rispetto all'anno prima, ovviamente anche in funzione di come si riescono ad adattare alla fisionomia della strada.
Ad esempio, le scritte della favola narrata da Mainolfi uno degli anni passati erano collocate in via Carlo Alberto, l'anno scorso in via Lagrange, e quest'anno in via Garibaldi.
Anche se il grosso delle opere viene riproposto anno dopo anno, con ogni nuova edizione c'è però in genere anche una new entry. Opere che vanno e opere che vengono, dunque.
Alcuni allestimenti sono davvero scenografici e mi piace sempre rivederli, anno dopo anno.
Il mio preferito in assoluto era il "Tappeto volante" di Buren, che di solito veniva allestito davanti al Municipio: un reticolato di lanterne rosse e blu disposte in maniera regolare a circa 8-9 metri da terra. Davvero suggestivo camminarci sotto. Peccato che quest'anno non sia stato riproposto.
![]() |
Tappeto volante, di Daniel Buren |
![]() |
L’energia che unisce si espande nel blu, di Marco Gastini |
![]() |
Volo su..., di Francesco Casorati |
![]() |
Noi, di Luigi Stoisa |
lunedì 30 novembre 2015
dimmi che credi al destino
Ornella
ama i cieli di Londra, il caffè con la moka e la panchina di un parco
meraviglioso dove ogni giorno incontra Mr George, un anziano signore che
ascolta le sue disavventure, legate soprattutto a un uomo che lei non
vede da troppo tempo, e che non riesce a dimenticare.
A cinquantacinque anni, Ornella si considera una campionessa mondiale di cadute, anche se si è sempre saputa rialzare da sola.
Per fortuna può contare su Bernard, il suo vicino di casa, che la osserva da lontano e la conosce meglio di quanto lei conosca se stessa. L'ultima batosta, però, è difficile da accettare. La piccola libreria italiana che dirige nel cuore di Hampstead – dove le vere star sono due pesci rossi di nome Russell & Crowe – rischia di chiudere: il proprietario si è preso due mesi per decidere.
Lei, che sa lottare, ha imparato anche a lasciarsi aiutare, e così chiama in soccorso la Patti, la sua storica amica milanese – inimitabile compagna di scorribande – che arriva in città con poche idee e tante scarpe, ma sufficiente entusiasmo per trovare qualche soluzione utile a salvare l'Italian Bookshop.
La prima è quella di assumere Diego, un ragioniere napoletano bello e simpatico, che fa il barbiere part-time, ha il cuore infranto e le chiama guagliuncelle.
Ma proprio quando la libreria ha più bisogno di lei, il destino riporterà Ornella in Italia, a bordo di una Seicento malconcia guidata in modo improbabile dalla Patti.
Una storia commovente di rinascita e speranza, ambientata in una Londra dove il cielo cambia sempre colore e l'amore brucia a fuoco lento; una storia che non avresti mai pensato di ascoltare, e che assomiglia terribilmente alla vita.
La mia opinione. Non proprio il libro che mi aspettavo, dopo aver letto la sinossi sul retro della copertina. Nella prima parte l'ho trovato un po' sciapo, e le protagoniste mi sembravano due rintronate che non si capiva bene perché fossero lì...
E poi esattamente a metà libro, al principio del capitolo 24, a noi lettori viene buttata in faccia la storia passata della protagonista. Ornella era affondata in un decennio di eroina, e poi nel decennio successivo aveva vissuto in un centro di recupero, per tornare alla vita.
Temi difficili e pesanti, narrati però in modo molto lieve. Paradossalmente, infatti, mi è piaciuta di più la seconda metà del libro che non la prima.
I personaggi che accompagnano Ornella, sia a Londra sia nella parentesi italiana, sono tratteggiati in maniera altrettanto delicata.
A cinquantacinque anni, Ornella si considera una campionessa mondiale di cadute, anche se si è sempre saputa rialzare da sola.
Per fortuna può contare su Bernard, il suo vicino di casa, che la osserva da lontano e la conosce meglio di quanto lei conosca se stessa. L'ultima batosta, però, è difficile da accettare. La piccola libreria italiana che dirige nel cuore di Hampstead – dove le vere star sono due pesci rossi di nome Russell & Crowe – rischia di chiudere: il proprietario si è preso due mesi per decidere.
Lei, che sa lottare, ha imparato anche a lasciarsi aiutare, e così chiama in soccorso la Patti, la sua storica amica milanese – inimitabile compagna di scorribande – che arriva in città con poche idee e tante scarpe, ma sufficiente entusiasmo per trovare qualche soluzione utile a salvare l'Italian Bookshop.
La prima è quella di assumere Diego, un ragioniere napoletano bello e simpatico, che fa il barbiere part-time, ha il cuore infranto e le chiama guagliuncelle.
Ma proprio quando la libreria ha più bisogno di lei, il destino riporterà Ornella in Italia, a bordo di una Seicento malconcia guidata in modo improbabile dalla Patti.
Una storia commovente di rinascita e speranza, ambientata in una Londra dove il cielo cambia sempre colore e l'amore brucia a fuoco lento; una storia che non avresti mai pensato di ascoltare, e che assomiglia terribilmente alla vita.
La mia opinione. Non proprio il libro che mi aspettavo, dopo aver letto la sinossi sul retro della copertina. Nella prima parte l'ho trovato un po' sciapo, e le protagoniste mi sembravano due rintronate che non si capiva bene perché fossero lì...
E poi esattamente a metà libro, al principio del capitolo 24, a noi lettori viene buttata in faccia la storia passata della protagonista. Ornella era affondata in un decennio di eroina, e poi nel decennio successivo aveva vissuto in un centro di recupero, per tornare alla vita.
Temi difficili e pesanti, narrati però in modo molto lieve. Paradossalmente, infatti, mi è piaciuta di più la seconda metà del libro che non la prima.
I personaggi che accompagnano Ornella, sia a Londra sia nella parentesi italiana, sono tratteggiati in maniera altrettanto delicata.
lunedì 9 novembre 2015
scorci d'autunno a torino
Non sono una grande fan degli articoli-classifica, quelli che riportano le "10 cose da fare a...", le "10 cose da vedere a..." e via di questo passo. Sono soggettivi, spesso discutibili e quasi mai esaustivi. Semplici giochetti in forma di elenchi.
Però Torino, la mia città, è comparsa di recente nella lista delle 15 bellissime città d’Italia da visitare in autunno stilata da Skyscanner, importante comparatore di voli internazionale, e la coordinatrice del blog Chicks and Trips mi ha chiesto di preparare un post fotografico in tema.
Quindi ecco il mio piccolo contributo (che riporto anche qua).

L'eleganza del centro, degli antichi palazzi e dei cortili vi faranno rivivere le atmosfere regali e un po' malinconiche dei tempi andati.
Le fontane e i monumenti, numerosissimi e sparsi in tutta Torino, vi porteranno alla mente personaggi dei secoli passati: scienziati, sovrani, eroi risorgimentali e non solo.

Grazie ai numerosi parchi e giardini pubblici potrete rilassarvi durante le vostre esplorazioni della città.
Se dovesse piovere o far brutto tempo, grazie alle lunghe vie porticate del centro non avrete la scocciatura di dover tenere l'ombrello aperto, e fare contemporaneamente le fotografie. (E a volte sotto i portici incontrerete piacevoli sorprese...)
I panorami torinesi vi permetteranno di spaziare lungo tutto l'arco alpino, soprattutto da alcuni punti privilegiati di osservazione, come la Mole, il Monte dei Cappuccini o il nuovo grattacielo Intesa-Sanpaolo (beninteso: se il meteo vi sarà amico).
Le botteghe e i caffè storici di Torino vi faranno conoscere i gianduiotti, i cremini, il bicerin, il sabaudo, il vermouth e altre squisitezze subalpine.
Se siete appassionati di storie magiche e vi incuriosiscono i temi esoterici, Torino vi fornirà pane per i vostri denti. Lo sapete, vero, che Torino è città magica per eccellenza?
Esistono appositi tour, molto frequentati non solo dai turisti, che ve la racconteranno tramite le storie più note.
Inoltre Torino è ricchissima di musei, sia in ambito artistico sia scientifico, adatti sia a grandi che piccini. Giusto per citarne due: il Museo Egizio e il Museo Nazionale del Cinema, ospitato dentro la scenografica Mole Antonelliana.
E poi il mese di novembre è particolarmente denso di eventi di rilevanza internazionale, nel campo dell'arte contemporanea e del cinema. Vi dicono nulla Artissima, Luci d'Artista e il Torino Film Festival, arrivato alla 33a edizione?
Ah, non paghi del riconoscimento citato in apertura, ho appena scoperto che anche il sito Trivago ha inserito Torino fra le 10 città italiane più ambite dove passare il Capodanno.
Cosa aspettate? Avete ancora bisogno di altre scuse per progettare un weekend (o una tappa più lunga) a Torino?
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