sabato 20 aprile 2013

lover at last


At last. Finalmente. Noi lettrici della Ward era da tempo che aspettavamo il libro dedicato a Qhuinn e Blay, e la Ward aveva sempre detto che sarebbe arrivato. Eccolo infatti, ma per quanto mi riguarda è stata meglio l'attesa della sua lettura o, meglio, avevo preferito di gran lunga le scene Qhuinn-Blay centellinate e sparse nei libri precedenti. Molto più vibranti e cariche di aspettativa. Qui i due si prendono (fisicamente) per tutto il libro, ma sino alle ultime pagine non chiariscono fino in fondo i loro sentimenti, e questo mi ha fatto innervosire non poco: sembrava sempre che si fosse avviata una relazione, ma dopo poche pagine saltava fuori un dubbio, una pippa mentale di una delle parti, ed ecco che si doveva ricominciare. Troppo sesso e poco sentimento, per i miei gusti.

Durante la lettura mi sono anche trovata a provare un bel po' di fastidio nei confronti della Ward, perché 'sta donna, invece di dedicare un libro a ogni Brother e poi cercare di chiudere le fila della serie (cosa che mi aspetterei prima o poi!), sta infilando nei libri nuovi character in continuazione, gente a cui probabilmente dedicherà nuovi libri interi - senza contare che pare abbia intenzione di dedicarne nuovamente altri a coppie già viste (ad es. Wrath e Beth saranno la coppia su cui verterà The King, il prossimo libro, ma probabilmente non saranno gli unici). Fra parentesi, io mi chiedo ancora a cosa sia servito uno come Murhder, di cui la Ward ci ha fatto annusare la presenza qualche libro fa, ma che da allora sembra essere ri-diventato nuovamente un fantasma. Peccato, perché sembrava un personaggio con delle potenzialità.

In "Lover at last" ricompare "miracolosamente" anche Luchas, il fratello di Qhuinn, tenuto prigioniero in modalità very-very-gore... poverello, speriamo che la terribile esperienza non abbia intaccato troppo la sua natura vampirica; anche lui vittima della sua famiglia, anche se in modo diverso da Qhuinn. Spero di leggere ancora di lui.

Poi mi sono definitivamente convinta che la Ward ce l'abbia con Layla: cosa non sta facendo passare a 'sto personaggio? Perché non le può dare un hellren decente senza farla passare attraverso tutte queste incertezze e sofferenze? Ormai è chiaro che la sua controparte sarà Xcor, ma santo cielo: anche lui che si è fissato con una che ha appena visto una volta, e la considera "sua" senza nemmeno premurarsi di capire se lei è d'accordo, o se è già impegnata... tutto sommato mi ha stupito che accetti così tranquillamente che lei sia incinta di un altro... Comunque, nonostante queste mie piccole obiezioni, le parti che riguardavano loro due mi sono piaciute molto ma molto di più di quelle dedicate a Qhuinn e Blay :-) così come non ho disprezzato nemmeno le parti dedicate ad Assail e a Sola.
Bè, Assail è stato introdotto nel libro precedente, ma non l'avevo particolarmente notato... invece qui mi ha ricordato moltissimo il Rehvenge dei tempi andati - e di conseguenza l'ho apprezzato molto :-) Un po' troppo automatico e poco sviluppato il senso di attrazione che prova nei confronti dell'umana Sola, ma pazienza: non so come mai, ma ero comunque più interessata a loro che non ai soliti Qhuinn e Blay... Apro un'altra parentesi per auspicare che, nei prossimi mesi, i traduttori cambino del tutto il cognome di Sola nell'edizione italiana (ehm: Sola Morte non si può sentire!!! Che razza di appellativo è? Mi aspettavo che si trattasse di una letale cacciatrice delle creature della notte, invece mi pare una ladra che, per quanto abile, ha bisogno di affetto e protezione... e probabilmente Assail finirà per fornirglieli...)

Trez e iAm sono altri due personaggi in giro da diverso tempo, e in questo libro mi sono parsi più "umani" di quanto non lo fossero nei libri passati. Non sono mai riuscita a capire bene cosa fossero le Ombre, cosa avessero di più letale e pericoloso rispetto ai vampiri e ai sympath. Adesso Trez mi pare una sorta di Cenerentolo in fuga, dedito ad affogare le proprie pene fra le gambe di chi gli capita a tiro, tenuto d'occhio dal fratello più responsabile. Speriamo che la Ward tiri fuori qualcosa di meglio anche per la sua storia: ce n'è bisogno...

Chi resta ancora? Ah sì, la Band of Bastards. Mi aspettavo che da questo gruppo la Ward traesse "materiale" per i libri a venire, ma per ora - escludendo Xcor - nessuno di loro è stato messo in rilievo particolare. Aspettiamo decisioni della Ward anche su questo fronte (anche qui c'è del potenziale, ma va messo a frutto). Tutto sommato, forse, non devo poi lamentarmi troppo se la Ward continua ad allungare il brodo ;-)

giovedì 4 aprile 2013

insofferenze da metro

Due mattine fa mi sono fatta le mie consuete 14 fermate di metro con la tizia seduta davanti a me che ha parlato constantemente al cellulare per tutto il tempo. Stava parlando dei cazzi suoi con una sua amica, e lo faceva con una voce forte e profonda, che mi urtava non poco (sapete com'è, con 'ste sensazioni epidermiche di rifiuto non c'è molto da fare...). Il tutto mentre io tentavo miserevolmente di leggere il mio libro...
Stamattina di nuovo metro, e chi sale alla fermata successiva alla mia, e si viene a sedere nell'unico posto libero, esattamente di fianco a me? Ma di nuovo la stessa tizia, no? già dotata di cellulare all'orecchio e con la conversazione già in corso mentre entrava - tanto che l'ho riconosciuta non perché l'abbia guardata in faccia (stavo infatti già leggendo), ma dalla voce irritante. E ovviamente è di nuovo andata avanti per tuuuutto il tragitto a parlare, parlare e parlare di nuovo dei cavoli suoi ad alta voce. Dio che palle!

Ora, ci sono tre categorie di persone che ODIO trovarmi accanto sui mezzi, e ancor più al mattino (più o meno presto):
1) quelli che hanno gli auricolari infilati nelle orecchie e hanno il volume del loro tunz-tunz come se fossero in discoteca (tanto che si sente 'sto rumore sino al fondo della carrozza), normalmente si tratta di ragazzotti;
2) quelli che parlano per un'eternità al cellulare a voce alta, rendendo edotti tutti coloro che li circondano delle loro vicende (e qui la categoria è molto ampia, uomini o donne, giovani o vecchi indifferentemente) - quando me ne trovo uno di fianco maledico sempre la Metro torinese che consente di parlare al cellulare anche a bordo dei treni, in galleria...
3) quelli che entrano e ti si piazzano accanto dopo aver fumato: mi basta una quantità millesimale di fumo per sgamarli, mi sento un piccolo beagle nel riconoscerli. Non posso farci niente, l'odore mi dà fastidio, e sono stra-certa che venga passato anche ai miei abiti e a miei capelli, stando accanto a loro.


mercoledì 3 aprile 2013

robert capa

Robert Capa. Retrospettiva
Palazzo Reale, Torino
(15 marzo - 14 luglio 2013)
Contadino siciliano indica a un ufficiale americano la direzione presa dai tedeschi, 1943

Raid aereo sopra Barcellona, 1939

Morte di un miliziano lealista, Spagna, inizio settembre 1936

Tè in un rifugio antiaereo, Londra, 1941

Uomo e gatto in attesa dei raid aerei, Londra, 1941

Soldati americani feriti in un ospedale di fortuna nella chiesa di Maiori, Italia, 1943

Ufficiale tedesco perquisito da un soldato americano, Francia, 1944

Donna con testa rasata per aver avuto un bambino con un soldato tedesco, Chartres, agosto 1944

Uno degli ultimi soldati a morire colpito da un cecchino, Lipsia, maggio 1945

Una donna porta i suoi bagagli accompagnata da un bambino, Haifa, Israele, 1949-50

L'esposizione racconta il percorso umano e artistico di Capa attraverso 97 fotografie in bianco e nero, raggruppate in undici sezioni: Leon Trotsky (1932), France (1936-1939), Spain (1936-1939), China (1938), Britain & Italy (1941-1944), France (1944), Germany (1945), Eastern Europe (1947-1949), Israel (1948-1950), Indochina (1954), Friends.

Articolo sulla mostra tratto da "La Stampa":

Robert Capa in mostra a Torino, la guerra con la Leica in tasca

di Rocco Moliterni
Si può partire da quell’ultima immagine che diventa quasi simbolica: come nella scena finale di un film due motociclisti sembrano andarsene tra la polvere, in Vietnam, sulla strada che porta da Nam Dinh a Tahai Binh. È il 25 maggio del 1954, di lì a poco su quella stessa strada una mina farà saltare in aria, a soli 40 anni, l’autore di quello scatto: Robert Capa, uno dei più grandi fotografi del Novecento, fondatore tra l’altro, con Henri Cartier-Bresson, dell’Agenzia Magnum.

A rilanciare l’epopea di Capa, nel centenario della nascita, è da oggi a Palazzo Reale di Torino, la retrospettiva curata da Lorenza Bravetta, responsabile Europa della Magnum, e organizzata da Silvana editoriale in collaborazione con la stessa Magnum e con il patrocinio del Comune di Torino. La mostra ripercorre la breve e intensa carriera di Capa, proponendo 97 immagini in undici sezioni. Si parte così con le celebri foto di Trotsky, realizzate da Capa nel 1932 quando all’anagrafe faceva ancora Endre Ernö Friedmann ed era un giovane ungherese riparato a Berlino. Qui si arrangiava facendo l’assistente in camera oscura all’agenzia Dephot. Fu il suo primo grande scoop: il rivoluzionario sovietico doveva parlare allo stadio di Copenhagen, ma non voleva essere fotografato. Così i fotoreporter di tutto il mondo arrivati nella capitale danese con le loro voluminose apparecchiature vennero bloccati all’ingresso. «Io - racconterà anni dopo Capa - portavo in tasca una piccola Leica, quindi a nessuno venne in mente che fossi un fotografo. Quando arrivarono gli operai che dovevano portare lunghi tubi di acciaio nella sala, mi unii a loro e con la mia Leica, andai alla ricerca di Trotsky».

Ma l’avvento del nazismo costringe il giovane ungherese di origine ebraica a lasciare Berlino per approdare a Parigi. Qui si innamora non solo della città ma anche di Gerda Taro, una fotografa tedesca che prima gli consiglia di cambiare il nome in Capa e poi lo aiuta vendere le foto nelle agenzie parigine. Di quel periodo in mostra vediamo Leon Blum e i sostenitori del Fronte Popolare, leader sindacali sul palco e bambini con il pugno chiuso. Poi verrà la guerra di Spagna e qui Capa perderà la sua compagna Gerda Tara in un incidente sotto un attacco aereo tedesco, ma nel settembre del 1936 realizzerà il Miliziano che muore, una fotografia che diventa ben presto non solo l’icona della guerra di Spagna ma una delle più famose immagini del Novecento.
La rivediamo accanto a foto di gente che corre a Bilbao verso i rifugi e di profughi repubblicani nei campi francesi quando ormai la Repubblica è sconfitta, nel 1939. Nel frattempo Capa è riuscito anche ad andare in Cina, realizzando un reportage in cui ci sono tanto Chang Kai-shek quanto la moglie, spettacoli di propaganda e un’immagine di bambini che giocano nella neve con i loro cappotti lunghi che oggi ci colpisce perché sembra anticipare i pretini di Giacomelli.

Poi sarà la volta, tra il 1941 e il 1944, dei grandi reportage della Gran Bretagna sotto i bombardamenti e dell’Italia dove sono appena sbarcati gli americani:  Capa fotografa il contadino siciliano che indica la strada a un marine americano, le donne di Cassino con le ceste in testa, e (bellissima) i soldati americani feriti che fumano in una chiesa di Maiori trasformata in ospedale da campo. Poi il 6 giugno del 1944 Capa, cui non manca certo il coraggio, sbarca con gli alleati a Omaha Beach in quello che passerà alla storia come il D-Day. «Le pallottole aprivano buchi nell’acqua intorno a me», scrisse. «Era molto presto e la luce era molto grigia per scattare buone fotografie, ma l’acqua e il cielo grigi rendevano di grande effetto quegli omini che si barcamenavano fra i piani surreali della squadra hitleriana anti-invasione».

Capa scatta quattro rullini da 36 foto e ritorna in Gran Bretagna perché possano essere sviluppate al più presto: «Quando - raccontava ieri alla presentazione della mostra il 94 enne John Morris, che fu amico di Capa, nonchè direttore di Magnum e che all’epoca lavorava per «Time» a Londra - arrivarono nei nostri studi li mandammo subito in camera oscura. Ma un giovane assistente preso dall’ansia sbagliò qualcosa e venne da me costernato a dirmi che tutti i rullini erano inutilizzabili. Andai a vedere, era un disastro, ma nel quarto rullino riuscimmo a salvare 11 scatti». Sono quelli, in parte mossi e sfocati, che fecero il giro del mondo e che ancora adesso sono immagini simbolo della Seconda guerra mondiale. Dalla Normandia Capa segue le truppe alleate a Parigi e racconta la liberazione della città, con il generale De Gaulle in parata e le giovani collaborazioniste dalla testa rasata. Di qui si sposta in Germania a documentare le distruzioni di Berlino (e c’è una foto che sembra quasi, non fosse per quegli uomini in bicicletta, una Beirut di Basilico). Nel dopoguerra la curiosità spinge Capa in Ucraina dove ci restituisce contadine sorridenti e famiglie che mangiano in fattorie collettive e coppie che danzano a piedi nudi.

C’è ancora il tempo di andare in Israele, anche qui bambini in campi per immigrati e donne sfollate che portano pesanti valigie sulla testa. Poi ci sarà l’Indocina e il «finale di partita». Capa non è stato però solo un fotografo di guerra, ma un uomo di grande sensibilità e ironia (come si intuisce dal ritratto che gli fa Ruth Ohkin): amava la vita, gli amici e le donne. Per cui l’ultima sezione sfodera celebri immagini di Hemingway, Picasso, Faulkner, Truman Capote e lo splendido collo di Ingrid Bergman, con cui ebbe una travolgente e sfortunata storia d’amore, iniziata con un bigliettino fatto passare sotto la porta della stanza d’hotel dell’attrice. Per sintetizzare la sua grandezza val la pena ricorrere a quanto scrisse il suo amico John Steinbeck: «Capa sapeva che non si può fotografare la guerra, perché si tratta per lo più di un’emozione: Ma lui riuscì a catturare quell’emozione scattando accanto ad essa. Era in grado di mostrare l’orrore patito da un intero popolo sul volto di un bambino».