Robert Capa. Retrospettiva
Palazzo Reale, Torino
(15 marzo - 14 luglio 2013)
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Contadino siciliano indica a un ufficiale americano la direzione presa dai tedeschi, 1943 |
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Raid aereo sopra Barcellona, 1939 |
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Morte di un miliziano lealista, Spagna, inizio settembre 1936 |
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Tè in un rifugio antiaereo, Londra, 1941 |
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Uomo e gatto in attesa dei raid aerei, Londra, 1941 |
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Soldati americani feriti in un ospedale di fortuna nella chiesa di Maiori, Italia, 1943 |
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Ufficiale tedesco perquisito da un soldato americano, Francia, 1944 |
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Donna con testa rasata per aver avuto un bambino con un soldato tedesco, Chartres, agosto 1944 |
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Uno degli ultimi soldati a morire colpito da un cecchino, Lipsia, maggio 1945 |
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Una donna porta i suoi bagagli accompagnata da un bambino, Haifa, Israele, 1949-50 |
L'esposizione racconta il percorso umano e artistico di Capa attraverso 97 fotografie in bianco e nero, raggruppate in undici sezioni: Leon Trotsky (1932), France (1936-1939), Spain (1936-1939), China (1938), Britain & Italy (1941-1944), France (1944), Germany (1945), Eastern Europe (1947-1949), Israel (1948-1950), Indochina (1954), Friends.
Articolo sulla mostra tratto da "La Stampa":
Robert Capa in mostra a Torino, la guerra con la Leica in tasca
di Rocco Moliterni
Si può partire da quell’ultima immagine che diventa quasi
simbolica: come nella scena finale di un film due motociclisti sembrano
andarsene tra la polvere, in Vietnam, sulla strada che porta da Nam Dinh
a Tahai Binh. È il 25 maggio del 1954, di lì a poco su quella stessa
strada una mina farà saltare in aria, a soli 40 anni, l’autore di quello
scatto: Robert Capa, uno dei più grandi fotografi del Novecento,
fondatore tra l’altro, con Henri Cartier-Bresson, dell’Agenzia Magnum.
A rilanciare l’epopea di Capa, nel centenario della nascita, è da
oggi a Palazzo Reale di Torino, la retrospettiva curata da Lorenza
Bravetta, responsabile Europa della Magnum, e organizzata da Silvana
editoriale in collaborazione con la stessa Magnum e con il patrocinio
del Comune di Torino. La mostra ripercorre la breve e intensa carriera
di Capa, proponendo 97 immagini in undici sezioni. Si parte così con le
celebri foto di Trotsky, realizzate da Capa nel 1932 quando all’anagrafe
faceva ancora Endre Ernö Friedmann ed era un giovane ungherese riparato
a Berlino. Qui si arrangiava facendo l’assistente in camera oscura
all’agenzia Dephot. Fu il suo primo grande scoop: il rivoluzionario
sovietico doveva parlare allo stadio di Copenhagen, ma non voleva essere
fotografato. Così i fotoreporter di tutto il mondo arrivati nella
capitale danese con le loro voluminose apparecchiature vennero bloccati
all’ingresso. «Io - racconterà anni dopo Capa - portavo in tasca una
piccola Leica, quindi a nessuno venne in mente che fossi un fotografo.
Quando arrivarono gli operai che dovevano portare lunghi tubi di acciaio
nella sala, mi unii a loro e con la mia Leica, andai alla ricerca di
Trotsky».
Ma l’avvento del nazismo costringe il giovane ungherese di origine
ebraica a lasciare Berlino per approdare a Parigi. Qui si innamora non
solo della città ma anche di Gerda Taro, una fotografa tedesca che prima
gli consiglia di cambiare il nome in Capa e poi lo aiuta vendere le
foto nelle agenzie parigine. Di quel periodo in mostra vediamo Leon Blum
e i sostenitori del Fronte Popolare, leader sindacali sul palco e
bambini con il pugno chiuso. Poi verrà la guerra di Spagna e qui Capa
perderà la sua compagna Gerda Tara in un incidente sotto un attacco
aereo tedesco, ma nel settembre del 1936 realizzerà il Miliziano che muore,
una fotografia che diventa ben presto non solo l’icona della guerra di
Spagna ma una delle più famose immagini del Novecento.
La rivediamo accanto a foto di gente che corre a Bilbao verso i
rifugi e di profughi repubblicani nei campi francesi quando ormai la
Repubblica è sconfitta, nel 1939. Nel frattempo Capa è riuscito anche ad
andare in Cina, realizzando un reportage in cui ci sono tanto Chang
Kai-shek quanto la moglie, spettacoli di propaganda e un’immagine di
bambini che giocano nella neve con i loro cappotti lunghi che oggi ci
colpisce perché sembra anticipare i pretini di Giacomelli.
Poi sarà la volta, tra il 1941 e il 1944, dei grandi reportage della
Gran Bretagna sotto i bombardamenti e dell’Italia dove sono appena
sbarcati gli americani: Capa fotografa il contadino siciliano che
indica la strada a un marine americano, le donne di Cassino con le ceste
in testa, e (bellissima) i soldati americani feriti che fumano in una
chiesa di Maiori trasformata in ospedale da campo. Poi il 6 giugno del
1944 Capa, cui non manca certo il coraggio, sbarca con gli alleati a
Omaha Beach in quello che passerà alla storia come il D-Day. «Le
pallottole aprivano buchi nell’acqua intorno a me», scrisse. «Era molto
presto e la luce era molto grigia per scattare buone fotografie, ma
l’acqua e il cielo grigi rendevano di grande effetto quegli omini che si
barcamenavano fra i piani surreali della squadra hitleriana
anti-invasione».
Capa scatta quattro rullini da 36 foto e ritorna in Gran Bretagna
perché possano essere sviluppate al più presto: «Quando - raccontava
ieri alla presentazione della mostra il 94 enne John Morris, che fu
amico di Capa, nonchè direttore di Magnum e che all’epoca lavorava per
«Time» a Londra - arrivarono nei nostri studi li mandammo subito in
camera oscura. Ma un giovane assistente preso dall’ansia sbagliò
qualcosa e venne da me costernato a dirmi che tutti i rullini erano
inutilizzabili. Andai a vedere, era un disastro, ma nel quarto rullino
riuscimmo a salvare 11 scatti». Sono quelli, in parte mossi e sfocati,
che fecero il giro del mondo e che ancora adesso sono immagini simbolo
della Seconda guerra mondiale. Dalla Normandia Capa segue le truppe
alleate a Parigi e racconta la liberazione della città, con il generale
De Gaulle in parata e le giovani collaborazioniste dalla testa rasata.
Di qui si sposta in Germania a documentare le distruzioni di Berlino (e
c’è una foto che sembra quasi, non fosse per quegli uomini in
bicicletta, una Beirut di Basilico). Nel dopoguerra la curiosità spinge
Capa in Ucraina dove ci restituisce contadine sorridenti e famiglie che
mangiano in fattorie collettive e coppie che danzano a piedi nudi.
C’è ancora il tempo di andare in Israele, anche qui bambini in campi
per immigrati e donne sfollate che portano pesanti valigie sulla testa.
Poi ci sarà l’Indocina e il «finale di partita». Capa non è stato però
solo un fotografo di guerra, ma un uomo di grande sensibilità e ironia
(come si intuisce dal ritratto che gli fa Ruth Ohkin): amava la vita,
gli amici e le donne. Per cui l’ultima sezione sfodera celebri immagini
di Hemingway, Picasso, Faulkner, Truman Capote e lo splendido collo di
Ingrid Bergman, con cui ebbe una travolgente e sfortunata storia
d’amore, iniziata con un bigliettino fatto passare sotto la porta della
stanza d’hotel dell’attrice. Per sintetizzare la sua grandezza val la
pena ricorrere a quanto scrisse il suo amico John Steinbeck: «Capa
sapeva che non si può fotografare la guerra, perché si tratta per lo più
di un’emozione: Ma lui riuscì a catturare quell’emozione scattando
accanto ad essa. Era in grado di mostrare l’orrore patito da un intero
popolo sul volto di un bambino».
Bellissima. Sei andata a vedere quella di Bischof?
RispondiEliminaSi, ci sono andata, anche se ti confesso che prima della mostra non lo conoscevo. E le sue foto, per quanto tecnicamente "belle", non mi hanno trasmesso le sensazioni di quelle di Capa.
RispondiEliminaNon è un caso, infatti, che Capa sia diventato molto più famoso di Bischof:-)). Però era lo stesso un grande...
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