mercoledì 3 aprile 2013

robert capa

Robert Capa. Retrospettiva
Palazzo Reale, Torino
(15 marzo - 14 luglio 2013)
Contadino siciliano indica a un ufficiale americano la direzione presa dai tedeschi, 1943

Raid aereo sopra Barcellona, 1939

Morte di un miliziano lealista, Spagna, inizio settembre 1936

Tè in un rifugio antiaereo, Londra, 1941

Uomo e gatto in attesa dei raid aerei, Londra, 1941

Soldati americani feriti in un ospedale di fortuna nella chiesa di Maiori, Italia, 1943

Ufficiale tedesco perquisito da un soldato americano, Francia, 1944

Donna con testa rasata per aver avuto un bambino con un soldato tedesco, Chartres, agosto 1944

Uno degli ultimi soldati a morire colpito da un cecchino, Lipsia, maggio 1945

Una donna porta i suoi bagagli accompagnata da un bambino, Haifa, Israele, 1949-50

L'esposizione racconta il percorso umano e artistico di Capa attraverso 97 fotografie in bianco e nero, raggruppate in undici sezioni: Leon Trotsky (1932), France (1936-1939), Spain (1936-1939), China (1938), Britain & Italy (1941-1944), France (1944), Germany (1945), Eastern Europe (1947-1949), Israel (1948-1950), Indochina (1954), Friends.

Articolo sulla mostra tratto da "La Stampa":

Robert Capa in mostra a Torino, la guerra con la Leica in tasca

di Rocco Moliterni
Si può partire da quell’ultima immagine che diventa quasi simbolica: come nella scena finale di un film due motociclisti sembrano andarsene tra la polvere, in Vietnam, sulla strada che porta da Nam Dinh a Tahai Binh. È il 25 maggio del 1954, di lì a poco su quella stessa strada una mina farà saltare in aria, a soli 40 anni, l’autore di quello scatto: Robert Capa, uno dei più grandi fotografi del Novecento, fondatore tra l’altro, con Henri Cartier-Bresson, dell’Agenzia Magnum.

A rilanciare l’epopea di Capa, nel centenario della nascita, è da oggi a Palazzo Reale di Torino, la retrospettiva curata da Lorenza Bravetta, responsabile Europa della Magnum, e organizzata da Silvana editoriale in collaborazione con la stessa Magnum e con il patrocinio del Comune di Torino. La mostra ripercorre la breve e intensa carriera di Capa, proponendo 97 immagini in undici sezioni. Si parte così con le celebri foto di Trotsky, realizzate da Capa nel 1932 quando all’anagrafe faceva ancora Endre Ernö Friedmann ed era un giovane ungherese riparato a Berlino. Qui si arrangiava facendo l’assistente in camera oscura all’agenzia Dephot. Fu il suo primo grande scoop: il rivoluzionario sovietico doveva parlare allo stadio di Copenhagen, ma non voleva essere fotografato. Così i fotoreporter di tutto il mondo arrivati nella capitale danese con le loro voluminose apparecchiature vennero bloccati all’ingresso. «Io - racconterà anni dopo Capa - portavo in tasca una piccola Leica, quindi a nessuno venne in mente che fossi un fotografo. Quando arrivarono gli operai che dovevano portare lunghi tubi di acciaio nella sala, mi unii a loro e con la mia Leica, andai alla ricerca di Trotsky».

Ma l’avvento del nazismo costringe il giovane ungherese di origine ebraica a lasciare Berlino per approdare a Parigi. Qui si innamora non solo della città ma anche di Gerda Taro, una fotografa tedesca che prima gli consiglia di cambiare il nome in Capa e poi lo aiuta vendere le foto nelle agenzie parigine. Di quel periodo in mostra vediamo Leon Blum e i sostenitori del Fronte Popolare, leader sindacali sul palco e bambini con il pugno chiuso. Poi verrà la guerra di Spagna e qui Capa perderà la sua compagna Gerda Tara in un incidente sotto un attacco aereo tedesco, ma nel settembre del 1936 realizzerà il Miliziano che muore, una fotografia che diventa ben presto non solo l’icona della guerra di Spagna ma una delle più famose immagini del Novecento.
La rivediamo accanto a foto di gente che corre a Bilbao verso i rifugi e di profughi repubblicani nei campi francesi quando ormai la Repubblica è sconfitta, nel 1939. Nel frattempo Capa è riuscito anche ad andare in Cina, realizzando un reportage in cui ci sono tanto Chang Kai-shek quanto la moglie, spettacoli di propaganda e un’immagine di bambini che giocano nella neve con i loro cappotti lunghi che oggi ci colpisce perché sembra anticipare i pretini di Giacomelli.

Poi sarà la volta, tra il 1941 e il 1944, dei grandi reportage della Gran Bretagna sotto i bombardamenti e dell’Italia dove sono appena sbarcati gli americani:  Capa fotografa il contadino siciliano che indica la strada a un marine americano, le donne di Cassino con le ceste in testa, e (bellissima) i soldati americani feriti che fumano in una chiesa di Maiori trasformata in ospedale da campo. Poi il 6 giugno del 1944 Capa, cui non manca certo il coraggio, sbarca con gli alleati a Omaha Beach in quello che passerà alla storia come il D-Day. «Le pallottole aprivano buchi nell’acqua intorno a me», scrisse. «Era molto presto e la luce era molto grigia per scattare buone fotografie, ma l’acqua e il cielo grigi rendevano di grande effetto quegli omini che si barcamenavano fra i piani surreali della squadra hitleriana anti-invasione».

Capa scatta quattro rullini da 36 foto e ritorna in Gran Bretagna perché possano essere sviluppate al più presto: «Quando - raccontava ieri alla presentazione della mostra il 94 enne John Morris, che fu amico di Capa, nonchè direttore di Magnum e che all’epoca lavorava per «Time» a Londra - arrivarono nei nostri studi li mandammo subito in camera oscura. Ma un giovane assistente preso dall’ansia sbagliò qualcosa e venne da me costernato a dirmi che tutti i rullini erano inutilizzabili. Andai a vedere, era un disastro, ma nel quarto rullino riuscimmo a salvare 11 scatti». Sono quelli, in parte mossi e sfocati, che fecero il giro del mondo e che ancora adesso sono immagini simbolo della Seconda guerra mondiale. Dalla Normandia Capa segue le truppe alleate a Parigi e racconta la liberazione della città, con il generale De Gaulle in parata e le giovani collaborazioniste dalla testa rasata. Di qui si sposta in Germania a documentare le distruzioni di Berlino (e c’è una foto che sembra quasi, non fosse per quegli uomini in bicicletta, una Beirut di Basilico). Nel dopoguerra la curiosità spinge Capa in Ucraina dove ci restituisce contadine sorridenti e famiglie che mangiano in fattorie collettive e coppie che danzano a piedi nudi.

C’è ancora il tempo di andare in Israele, anche qui bambini in campi per immigrati e donne sfollate che portano pesanti valigie sulla testa. Poi ci sarà l’Indocina e il «finale di partita». Capa non è stato però solo un fotografo di guerra, ma un uomo di grande sensibilità e ironia (come si intuisce dal ritratto che gli fa Ruth Ohkin): amava la vita, gli amici e le donne. Per cui l’ultima sezione sfodera celebri immagini di Hemingway, Picasso, Faulkner, Truman Capote e lo splendido collo di Ingrid Bergman, con cui ebbe una travolgente e sfortunata storia d’amore, iniziata con un bigliettino fatto passare sotto la porta della stanza d’hotel dell’attrice. Per sintetizzare la sua grandezza val la pena ricorrere a quanto scrisse il suo amico John Steinbeck: «Capa sapeva che non si può fotografare la guerra, perché si tratta per lo più di un’emozione: Ma lui riuscì a catturare quell’emozione scattando accanto ad essa. Era in grado di mostrare l’orrore patito da un intero popolo sul volto di un bambino». 

3 commenti:

  1. Bellissima. Sei andata a vedere quella di Bischof?

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  2. Si, ci sono andata, anche se ti confesso che prima della mostra non lo conoscevo. E le sue foto, per quanto tecnicamente "belle", non mi hanno trasmesso le sensazioni di quelle di Capa.

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  3. Non è un caso, infatti, che Capa sia diventato molto più famoso di Bischof:-)). Però era lo stesso un grande...

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